giovedì 30 maggio 2013

Salviamo la civiltà dei caffè dove siamo soli e in compagnia


A Trieste le Assicurazioni Generali decidono le sorti dello storico San Marco

CLAUDIO MAGRIS

"Corriere della Sera", 29 Maggio 2013 

Quando a Vienna, nel 1896, venne chiuso il famoso Caffè Griensteidl, Karl Kraus scrisse un articolo, ironico e appassionato, dal titolo La letteratura demolita, perché un pezzo di quest'ultima moriva con quel luogo, pubblico e insieme familiare e individuale, in cui essa erafiorita. Quel Caffè — come altri, sempre più rari — era anche letteratura, ma non solo perché frequentato da scrittori che ai suoi tavolini avevano scritto pagine memorabili o perché era stato il teatro di discussioni artistiche e aveva visto progettare, nascere e morire riviste e movimenti culturali. Il Caffè era ed è un potenziale grembo di letteratura, un terreno fecondo per la sua gestazione, perché unisce solitudine e socievolezza, quella interiorità raccolta, ma immersa nel mondo e aperta ad esso che è condizione essenziale per la scrittura e per ogni creazione.
Al Caffè — diceva un altro grande scrittore viennese, Peter Altenberg — si è soli, al proprio tavolino isolato come una zattera nel fluire delle cose, ma anche in compagnia, circondati daaltri e dal sommesso brusio dell'esistenza. Non è male non essere disturbati, ma è ancor più
importante rompere ogni tanto le ragnatele dei propri fantasmi e delle proprie parole e venirecorretti e ridimensionati, in quel delirio di onnipotenza latente nella scrittura, dalla cordiale  indifferenza di chi sta intorno, né troppo vicino né troppo lontano. 
La civiltà letteraria dei Caffè è fiorita nei più diversi Paesi e nelle più diverse culture, da Vienna 
a Praga, dalla Francia al Sudamerica; in alcuni famosi Caffè di Parigi come di Buenos Aires sono nati grandi movimenti artistici e opere fondamentali. Il Caffè, si è detto, è stato la moderna  agorà, la piazza greca in cui, nella quotidianità del mercato, si discuteva sulla verità e  sull'opinione; il Caffè è un salutare antidoto al collettivo assembleare o all'anonimato interscambiabile della società, in cui si spengono le diversità individuali, come alle narcisistiche torri d'avorio e alla soggettività egocentrica che vede solo se stessa. Non è un teatro del  sociale né dell'ipertrofia dell'io, bensì della riservatezza e della socievolezza. Per questo è stato ed è così propizio all'arte.
Anche Trieste ha avuto i suoi Caffè che fanno parte della storia del mondo, frequentati da Svevo o da Saba come da altri artisti, ma soprattutto espressione di uno stile di vita, ben più importante di ogni pagina letteraria. Ci sono ancora certi Caffè — ad esempio gli Specchi, il Tommaseo — ma di Caffè nel senso proprio, antico e non solo antico del termine, è rimasto uno solo, il San Marco (forse, ma solo in parte, lo Stella Polare). Un luogo dove si sta in pace, si legge, si scrive, si chiacchiera, si presentano libri. Un cuore della città; un cuore robusto dai battiti tranquilli. Noto in tutto il mondo, meta dei visitatori stranieri che vanno a vederlo come vanno a San Giusto, il Caffè San Marco, alcuni mesi dopo la morte del suo titolare Franco Filippi, rischia ora la chiusura o una trasformazione che sarebbe comunque una chiusura, perché lo altererebbe per farne un'altra cosa, poco importa se bar, ristorante o libreria, in cui si
comprano, ma non si leggono libri.
Il suo destino dipende dalle Assicurazioni Generali, proprietarie dei locali. Sono certo che la mitica Compagnia triestina capirà che l'utile di un Caffè — in base al quale calcolare l'affitto — 
non può essere immediatamente economico, bensì anche economico, ma in un senso più ampio. Un Caffè in cui si può stare ore prendendo una sola consumazione non può offrire lauti
guadagni; può solo sopravvivere. Ma i grandi imprenditori hanno sempre compreso che un'impresa non solo incassa, ma anche spende, quando per incassare è necessario investire,
e che ci sono investimenti la cui ricaduta sul profitto è solo indiretta, ma non per questo meno importante per un'impresa, la cui immagine concorre, alla fine, pure al profitto.
Carnegie non era un ingenuo benefattore, quando ha costruito la Carnegie Hall, spendendo una grande somma di cui non sembra essersi pentito; era appunto un grande uomo d'affari. Le
sale dei Musei americani sono intitolate non agli artisti di cui espongono le opere, bensì ai magnati che hanno loro donato quelle opere e non solo per beneficenza, ma perché capivano che quella spesa era pure nel loro interesse, mentre è difficile che un taccagno restio a  sborsare pochi centesimi divenga un protagonista dell'economia. Sono certo che le Assicurazioni Generali capiranno che il San Marco, anche nel loro complessivo interesse, è da
sponsorizzare, per farsene un fiore all'occhiello, non da sfruttare contando i centesimi. Un altro 
scrittore viennese, Polgar, lavorava per ore al Caffè e, quando era stanco, usciva e andava al
Caffè per distrarsi.

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