LA TRADUZIONE DEL ROMANZO DI STENDHAL
Lo scrittore si identificava con Julien Sorel e la sua tragica avventura
Matteo Collura
" Corriere della Sera", 8 maggio 2013
È una ghiotta occasione per rileggere uno dei capolavori della narrativa dell'Ottocento, la pubblicazione del romanzo di Stendhal Il rosso e il nero nella traduzione di Aldo Palazzeschi. Un'occasione che permette di gustare e riassaporare una delle più belle storie d'amore mai raccontate e di vivere le tensioni morali ed emotive di un giovane che pur essendo vissuto (nella finzione romanzesca) nella prima metà del XIX secolo, sembra incarnare l'eterna condizione giovanile, quel misto d'energia e di pressanti aspettative che l'età adulta e ogni realtà sociale regolarmente s'incaricano di imbrigliare e spegnere. Ne Il rosso e il nero è un giovane francese vissuto durante l'esaltante epopea napoleonica a entrare nel grigiore di una maturità costretta a fare i conti con la Restaurazione. Julien Sorel è il nome del protagonista di questa storia che vuole essere anche quella dell'autore del romanzo: uno Stendhal costretto, con la scomparsa dalla scena europea del «suo» imperatore, a ridimensionare le proprie ambizioni e a consegnarsi alla noia del «ritorno all'ordine» di Carlo X.
Visto così, il romanzo appare sotto una luce chiarificatrice, ancora più chiaro quel sottotitolo «Cronaca del 1830» (che Palazzeschi, ma non è questa l'unica manomissione, traduce con «Cronache del 1830»). E veniamo a lui, al traduttore: uno scrittore che a cinquantanove anni, in una Roma sfinita dal protrarsi della guerra e sottomessa ai rastrellamenti nazisti ? è la primavera del 1944 ? decide di mettere mano a un progetto che coltivava dagli anni giovanili, da quando aveva letto, per sua stessa ammissione identificandovisi, la tragica avventura di Julien Sorel raccontata da Stendhal.
Lavora con energia, Palazzeschi, quella giusta per sintonizzarsi con la pagina nervosa e vitale (letteralmente piena di vita, riproducente la vita) dello scrittore francese. Ed ecco il risultato, in questo libro che uno stendhaliano non può non amare, non può non tenere vicino a sé: Rosso e nero nella traduzione di Aldo Palazzeschi, a cura di Francesca Mecatti e con una premessa di Massimo Colesanti (Edizioni di storia e letteratura dell'Università degli Studi di Firenze, pp. 470). Subito un arbitrio, un azzardo, da parte del traduttore, già nel titolo, che viene a perdere gli articoli determinativi: Rosso e nero, forse per rendere ancora più simbolica (al di là di tutte le simbologie che conosciamo) la contrapposizione tra il colore per eccellenza e il nero del buio.
Di grande interesse il breve saggio di Massimo Colesanti e l'introduzione della studiosa Francesca Mecatti, la quale, in un puntiglioso lavoro di scandaglio, mostra il laboratorio mentale e ideologico nel quale Palazzeschi s'inoltrò, nella pretesa di rendere ancora più stendhaliano il testo. «Se, come osserva Starobinski, l'antilirismo di Stendhal è un rifiuto di accordare un qualsiasi valore all'intensità della parola, sempre distante da ciò che essa pretende di esprimere ? annota la Mecatti ?, le scelte di Palazzeschi in qualità di traduttore non potevano essere più felici: infedeltà alla lettera del testo e deciso viraggio verso il suo godimento estetico».
Certo, la morte della signora de Renal, avvenuta, «mentre abbracciava i suoi bambini», dopo tre giorni da quella del suo giovane amante Julien Sorel, oggi lascia perplessi se non scettici, così come quei colpi di pistola esplosi contro di lei in chiesa, durante l'Elevazione dall'amante ingrato. Ma sono passati quasi due secoli da quella storia costruita da uno scrittore espressione di un autentico romanticismo, ma così attento alla realtà del suo tempo da farsene insuperato cronista.Resta da dire che nel leggere questa versione del romanzo verrebbe voglia di confrontarla con le tante altre uscite in Italia da quando Il rosso e il nero, secondo la stessa profezia dell'autore, cominciò ad avere fortuna (intorno al 1880). Tante le traduzioni, da Massimo Bontempelli (1913) a Giacomo di Belsito (1930); da Ugo Dettore (1945) a Diego Valeri (1946); da Mario Lavagetto (1968) a Maurizio Cucchi (1996), per citarne alcune. Indimenticabili, sempre, alcuni passaggi come buttati lì per il gusto della battuta (per esempio: «Quella testa non era stata mai tanto poetica come nel momento che andava per cadere»).
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