Intervista all’autore premio Nobel per la letteratura.
“Nella poesia italiana ritrovo i luoghi dove sono nato”.
Sebastiano Triulzi
"La Repubblica", 22 maggio 2013
Le poesie di Seamus Heaney posseggono una straordinaria intimità con la terra e il mondo rurale irlandese. La stessa lingua inglese che lui usa è plasmata e pensata dal paesaggio, in una connessione tra il sé, la storia insanguinata dell’Ulster e la cultura classica che gli fa da guida. «Ho bisogno di qualcosa che susciti o risvegli un ricordo per l’ispirazione — confessa Heaney, ospite a Roma dell’American Academy — ma la mia scorta di immagini dell’infanzia si discosta molto dalla mia vita da adulto». Nato nel 1939 in una cittadina a quaranta chilometri da Belfast e poi divenuto Nobel per la letteratura nel 1995, è stato invitato a parlare di Ovidio, di cui tradusse i versi di Orfeo e Euridice: «La versione di Virgilio ha una sfumatura più tragica e solenne. Ovidio intrattiene, rapisce, diverte. Questo mito è una riflessione sull’arte, che consiste nel farcela quasi a sconfiggere la morte, un processo di risalita sempre soggetto all’errore umano». Per il suo tocco leggero, considera Ovidio più adatto al XXI secolo dell’amato Virgilio che sconta il rapporto con Augusto e la cultura di corte: «Ma in lui ci sono anche le lacrimaererum, la storia fatta di lacrime».
Da dove nasce la predilezione per Virgilio?
«Sento una affinità con il suo linguaggio e il suo ritmo. Ho tradotto la prima e la nona egloga delle Bucoliche perché il tema era l’essere poeta in tempi difficili e perché si narra di persone espropriate della propria terra. Una vicenda autobiografica non solo per Virgilio, una situazione di perdita che rappresentava una risposta ai Troubles, al conflitto in Irlanda del Nord».
La ricerca di un Eden dove dedicarsi alla poesia è un sogno egoistico?
«Robert Pinsky ricordava che in inglese la parola “responsabilità” deriva da risposta. La responsabilità del poeta è dare delle risposte al dolore e alle tragedie della vita. C’è una vasta gamma di modi possibili, da un coinvolgimento politico diretto a una relazione più metaforica o obliqua con l’attualità. Questa seconda sopravvive meglio ».
Non trova le Bucoliche estremamente drammatiche?
«Però gli eventi sembrano accadere oltre un vetro. E c’è passione, oltre all’elemento politico. Sembrano includere tantissimo e lasciar fuori altrettanto. Sono un incrocio tra un libro delle Ore e ilcampo dietro casa, un misto di realismo e visione. Le Georgiche invece sono un poema dei nostri tempi, glorificano il prendersi cura della natura. Milosz sosteneva che la poesia innalza le cose solo perché esistono e nelle Georgiche è così».
Pensa di essere cresciuto in una Arcadia?
«Sì. Ho trascorso l’infanzia in un fattoria, durante gli anni Quaranta, in una parte del paese che si muoveva a ritmo lento. Il materiale delle mie poesie proviene dalla memoria di quellocus amoenus. Come conciliarlo col resto dell’esperienza è stato il mio rovello principale. Oggi posso dire che parte della mia poesia è un tipo di natura morta, o un quadro di interni olandese».
So che è alle prese con il VI canto dell’Eneide.
«È il viaggio nell’oltretomba che mi attrae. Mio padre era sempre all’erta quando qualcuno in zona moriva, spesso aiutava i familiari a prepararsi per il funerale. Potrei avere ereditato da lui l’interesse per la vita oltre la morte. Le discese di Omero, Virgilio e Dante, sono un modo di mantenere viva la memoria e distinte, attraverso dialoghi drammatici, l’interiorità e l’esteriorità. Comunque, quando i tuoi amici cominciano a morirti intorno, l’oltretomba diventa un posto interessante da frequentare».
A quando risale il primo incontro con Dante?
«Negli anni Settanta feci la traduzione dell’episodio del conte Ugolino, che conteneva un riferimento alla lotta dei prigionieri politici in sciopero della fame. Dante mi ha insegnato a lasciare che altre voci si esprimano raccontando i loro problemi. In Station Island compare il fantasma di un mio cugino assassinato nei Troubles che mi accusa di trattare le sofferenze altrui rendendole con belle parole, trasformandole in elegia. È un argomento a cui penso di continuo».
E con Pascoli, invece?
«Stavo citando un verso di Yates — “le colline ventose di Urbino” — e un’amica mi fece leggere l’Aquilone. Trovai meraviglioso il passaggio dalla gioia di un ragazzo nel far volare l’aquilone alla sua morte. Ora sto lavorando su una sezione di Myricae, L’ultima passeggiata. Riferisce di un mondo che conosco bene, comincia con l’aratura, poi vengono le galline, il granaio; infine le donne ferme a un passaggio a livello che chiacchierano e la sbarra che si abbassa. Sono cresciuto proprio di fianco a una ferrovia così».
Per Pascoli la lingua poetica è quella materna legata alla terra. Per lei?
«Ho imparato l’irlandese nella scuola cattolica, dove veniva insegnato non per propaganda ma per un retaggio culturale. A casa parlavamo un inglese con inserti nordirlandesi e scozzesi. La mia lingua madre è quel- la della contea di Derry e la mia voce di poeta ne è sicuramente influenzata. Anche se bisogna sempre negoziare con la lingua franca, che Ted Huges, troppo duramente, definiva la lingua degli zombi».
Alcuni critici sostengono che il paesaggio delle torbiere nelle sue poesie sia una metafora della psiche irlandese.
«Dentro le torbiere c’è di tutto: oro, armi, pacchi di libri, burro ancora salato, perfino mummie come l’Uomo di Grauballe, la cui testa ha uno sguardo terrificante per via della gola tagliata. I buchi erano così profondi che si diceva non avessero fine e a noi bambini veniva raccomandato di tenersi alla larga. In quegli anni i componenti dell’Ira si reputavano i sacerdoti della nostra terra, pronti a sacrificarsi compiendo atti di violenza. Vedevo un’analogia tra le vittime dell’età del ferro e quelle dell’Irlanda del Nord. Qualche anno fa ho riesumato questa passione ne L’uomo di Tollund in primavera, in cui riportavo in vita uno delle torbiere facendolo passeggiare nella metropoli, estraneo ma benefico, espressione al principio di una violenza e verso la fine di una forza benigna».
In realtà è come se lei scrivesse da sempre della guerra, solo che è una guerra diversa.
«Sì, lo so. È ciò di cui parla Milosz in The World, in cui le immagini idilliche e ironiche sono usate per andare contro ciò che sta accadendo altrove. Diceva che l’occupazione nazista di Varsavia, la distruzione del ghetto, la ribellione dei polacchi erano come un grido prolungato e la poesia non riusciva a gridare così. In un famoso verso si chiede: “Che cos’è la poesia che non salva i popoli né le persone?”. Rispondo citando Brodsky: “L’unica cosa che l’arte ci insegna è che la condizione umana è privata”. Ma ogni teoria, suppongo, è un’autobiografia».
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