Per la filosofa il processo riguardava lui, non l'ideologia nazista
Corrado Stajano
"Corriere della Sera", 22 maggio 2013
Un gran libro del Novecento, La banalità del male, di Hannah Arendt, compie quest'anno mezzo secolo e non ha perso nulla della sua forza morale e politica. Quando fu pubblicato provocò scandalo in tutto il mondo, rotture di antiche amicizie, conflitti non sopiti (insulti ancora oggi del regista Lanzmann al Festival di Cannes), ma anche un'ampia condivisione di chi si ritrovava e si ritrova in quelle idee, espressione di profonda libertà intellettuale, razionali e insieme amaramente appassionate. Negli anni diede vita ad almeno un migliaio di pubblicazioni sull'orrore della Shoah e sulle sue interpretazioni. Ha avuto insomma una funzione stimolatrice. Che continua.
Dalla casa editrice Giuntina sta ora per uscire Eichmann o la banalità del male, di Hannah Arendt e Joachim Fest, un libro intelligente che serve a fare il punto su quella questione controversa e sulla polemica che ne seguì. Il libro raccoglie la preziosa intervista andata perduta e ritrovata di recente della Arendt allo storico tedesco Joachim Fest, trasmessa nel 1964 da una radio bavarese; il carteggio inedito fra i due; lettere; documenti; la feroce stroncatura di Golo Mann; il saggio di Mary McCarthy consonante con le opinioni della filosofa tedesca; un'accurata bibliografia.
La banalità del male uscì nel 1963 in Israele, l'anno seguente in Germania e in Italia (Feltrinelli). Questo della Giuntina è un libro utile a raccogliere le idee per chi sa e a suscitare desiderio di sapere per chi non sa.
Hannah Arendt, filosofa della politica (1906-1975), ebrea tedesca, lasciò la Germania nel 1933, all'avvento del nazismo. Autrice, tra l'altro, di un'opera di grande rilievo, Le origini del totalitarismo, visse esule a Parigi e poi negli Stati Uniti, dove insegnò nelle più rinomate università.
Nel 1961 accettò, non a cuor leggero, la proposta del «New Yorker» di seguire a Gerusalemme il processo contro il criminale di guerra Adolf Eichmann, capo della sezione ebraica della Gestapo, esecutore degli ordini di Heydrich, catturato nel 1960 dal Mossad israeliano in Argentina. (Il processo finì con la condanna a morte di Eichmann impiccato nel 1962).
Che cosa provocò la polemica contro La banalità del male? La Arendt scrisse sul settimanale americano una serie di reportage, li arricchì e ne trasse poi il libro con quel titolo che offese molti. Ma, come scriverà Joachim Fest, biografo di Hitler e di Speer, in una raccolta di ritratti, Incontri da vicino e da lontano, pubblicata, come gli altri suoi libri, dalla Garzanti, la Arendt «non aveva minimamente inteso definire banale lo sterminio, né tantomeno il male in sé. Aveva semmai voluto descrivere quel male, nella sua terribile incarnazione in uno squallido personaggio».
Hannah Arendt aveva le carte in regola per scrivere quel che vide e quel che sentì: Eichmann visto da vicino non era un angelo caduto, ma un uomo meschino, mediocre, bugiardo, privo di ogni morale, un millantatore. Il suo grado nella gerarchia di comando non era elevato, tenente colonnello. Ubbidiva, felice di farlo, sofferente se gli mancavano gli ordini. Sapeva organizzare e negoziare, fu impeccabile nel far funzionare i trasporti della morte, il suo compito.
Era un «depositario dei segreti della soluzione finale», aveva visto con i propri occhi quel che bastava per conoscere bene quella terribile macchina di distruzione. Non aveva ucciso con le proprie mani, non aveva di certo il potere e l'autorità di Hitler o di Himmler. Quel che a lui interessava era la carriera e per farla era necessario che fosse il proprio gruppo a uccidere il maggior numero possibile di ebrei. L'azienda della morte.
Era un uomo comune, «normale»: «nel senso che non era un'eccezione nel contesto del Terzo Reich». Quella «normalità» di Eichmann faceva gelare il sangue alla filosofa-giornalista che aveva potuto verificarla durante le 121 udienze del processo.
Con il suo libro la Arendt ruppe ogni schema. Il procuratore generale (e il primo ministro Ben Gurion) avrebbero voluto che quello diventasse il processo al nazismo. Secondo la scrittrice, invece, il processo doveva fondarsi su quel che Eichmann aveva fatto, non su quel che gli ebrei avevano sofferto e atrocemente pagato. Era necessario che stessero fuori dal dibattimento le domande senza risposta: «Com'è potuto accadere?»; «Perché gli ebrei andavano alla morte come agnelli al macello?». E anche: «Come hanno potuto i capi ebraici contribuire allo sterminio degli ebrei?».
L'accenno alla correità dei consigli ebraici nella Shoah, per evitare mali peggiori, naturalmente, scatenò aspri risentimenti. La Arendt fu accusata di essere incapace di amore per il suo popolo, ci fu anche chi disse che aveva calunniato le vittime e scagionato la Gestapo. La verità fa male, in ogni epoca.
Nell'intervista a Fest, la Arendt difende se stessa soprattutto con ironia sull'ipocrita commedia degli intellettuali. Preferisce affrontare i temi nodali: il potere che è più forte del crimine; l'incapacità di immaginarsi nella mente degli altri; se si può essere innocenti in un regime totalitario; la tipologia degli assassini privi di un movente, «incomparabilmente più terribili di qualsiasi altro assassino»; i nazisti che non si sono per nulla pentiti; la mentalità del funzionario parossisticamente ubbidiente anche agli ordini più malvagi. «Ma in nome di Dio — esplode la Arendt —, fate che sia un altro a sporcarsi con questa faccenda! Tornate a essere uomini».
Il passato irrisolto, il passato che non passa.
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