Qualsiasi governo è destinato ad essere superato dal potere dell’innovazione
Emanuele Severino
"Corriere della Sera", 1 novembre 2014
Alcuni mesi fa ho pubblicato sul «Corriere della Sera» un articolo: Il destino della tecnica, battere le ideologie (29 luglio). Il suo destino è cioè di porsi alla guida dei popoli: diventare tecnocrazia. Il presidente Renzi ha ribadito, anche in questi giorni, il suo rifiuto della tecnocrazia nostrana ed europea e il primato della politica. Nei due casi, che sembrano contraddirsi, la parola «tecnocrazia» ha però un significato profondamente diverso. Avevo chiarito l’equivoco anche alla fine del governo Monti («Corriere», 19 gennaio 2013), che voleva essere «governo tecnico» proprio nel senso a cui Renzi si riferisce volendosene però distanziare. La tecnica destinata a dominare il mondo è abissalmente diversa dalla tecnica dei «governi tecnici». La politica diventerebbe grande politica se lo capisse.
Il capo del governo dice di non interessarsi delle «ideologie», ma di voler risolvere i problemi concreti dell’economia e della società italiana. Ma uno dei tratti caratteristici della tecnica che i «governi tecnici» si propongono di valorizzare è appunto questo: il disinteresse per la gestione ideologica dei problemi. Il disinteresse di Renzi procede dunque in direzione di quella gestione tecnologica dei problemi alla quale egli crede di voltare le spalle.
Ma a questo punto va anche detto che sia un «governo tecnico» come quello di Monti (o quello che si ritiene oggi dominante in Europa), sia un «governo politico-non tecnico», come quello che Renzi intende promuovere, sono chiaramente e robustamente ideologici. C’è bisogno di ricordare che anche il capitalismo è un’ideologia? Sì, nonostante tutto ce n’è un gran bisogno! Il capitalismo non è la «legge naturale eterna» dei rapporti economici. Nonostante la crisi attuale, esso è l’ideologia vincente in grandi aree del Pianeta, ma non per questo i suoi principi (ad esempio autonomia e libertà dell’individuo, proprietà privata, uso della merce per aumentare il profitto, dipendenza dei consumi della gente e della ricchezza delle nazioni dall’iniziativa privata) sono verità assolute.
Ebbene, sia i «governi tecnici», sia i governi «politici non tecnici» oggi in circolazione si propongono di adottare le misure più idonee per guarire il capitalismo dalla malattia che lo sta affliggendo: per guarire ciò che è percepito come la dimensione che da ultimo determina e configura i rapporti sociali e la stessa sorte dei governi. Che quindi — siano di destra oppure di sinistra — si combattono in famiglia. L’ideologia capitalistica stabilisce pertanto anche il modo in cui la tecnica deve essere usata e usata anche dai «governi tecnici». Sì che, in quanto regolata dal capitalismo, anche la tecnica è un’ideologia.
In Italia, poi, tutti quei tipi di governo sono chiaramente e robustamente delle ideologie anche perché, oltre ad esser guidati dall’economia di mercato, sentono fortemente l’influenza dell’ideologia della Chiesa cattolica. Se poi si rifiuta la tecnocrazia e si vuole che alla guida della società stia la politica, allora il carattere ideologico dell’esecutivo cresce ulteriormente, perché la politica stessa (la politica come «arte» politica) è ideologia. Ho osservato altre volte che un agire economico è capitalistico solo se, oltre ad un insieme di altri fattori, è un agire a rischio (tanto che nel rischio la scienza economica individua uno dei principali motivi che giustificano il profitto e la sua entità); e il rischio caratterizza in modo essenziale anche la decisione di credere in un’ideologia. Ma quanto si sta dicendo del carattere rischioso dell’intrapresa capitalistica va detto anche della politica in quanto tale. Il politico rischia come l’imprenditore. Le sue decisioni non sono garantite da una competenza tecno-scientifica, anche se la tecno-scienza fornisce alla politica i mezzi con cui essa può realizzare le proprie decisioni. Sono decisioni a rischio; quindi eminentemente ideologiche.
Si può osservare che queste considerazioni sono ben poco utili a risolvere i problemi attuali, come ad esempio quello della regolamentazione del lavoro. Ma se i popoli non pensano di essere alla fine della loro esistenza, allora, ancora più decisivi dei «problemi attuali» e «concreti» sono quelli relativi alla direzione verso cui il mondo sta andando. Appunto rispetto a questo tema si fa avanti il carattere decisivo della differenza abissale tra la tecnica quale oggi si presenta sul Pianeta e ciò che essa è destinata a diventare: tecnocrazia.
Un termine, questo, da intendere tuttavia in senso del tutto diverso da quello in cui la tecnocrazia è stata concepita a partire da Saint-Simon, e poi da Thorstein Veblen fino alle analisi curate da Hansfried Kellner e da Frank W. Heuberger. In queste prospettive si ignora l’inevitabilità del processo (indicato anche in quei miei articoli) in cui la tecnica, da mezzo delle ideologie che intendono servirsene per realizzare i loro scopi, diventa il loro scopo e dunque le domina — una tematica, questa, che è stata apprezzata anche da Fabrizio Pezzani, professore di Programmazione e controllo nelle pubbliche amministrazioni all’Università Bocconi ( È tutta un’altra storia, Università Bocconi Editore, 2013).
Inoltre, le forme di sapienza della tradizione obiettano alla tecnocrazia quale è comunemente intesa che non tutto ciò che essa può fare è lecito farlo; e la tecnica, come tale, non possiede oggi una risposta capace di risolvere l’obbiezione. Infatti la risposta adeguata presuppone che la tecnica sia capace di ascoltare e di capire la voce dell’essenza (peraltro tendenzialmente nascosta) della filosofia degli ultimi due secoli, che mostra l’impossibilità dell’esistenza di Limiti assoluti all’agire umano e quindi all’agire tecnico — giacché solo la filosofia, non la scienza, può mostrare tale impossibilità e autorizzare la destinazione della tecnica al dominio.
Va richiamato anche un ulteriore motivo di tale destinazione. La gestione della produzione industriale è ideologica (capitalistica o spuria come quella cinese o araba). Servendosi della tecnica per realizzare i propri scopi, tale gestione sta distruggendo la Terra. Oggi si riconosce che questo è il pericolo maggiore per l’umanità. Ma la gestione ideologica dell’economia, distruggendo la Terra, distrugge se stessa. Quindi o va incontro all’autodistruzione, oppure, per evitarla, assume come scopo la capacità della tecnica di produrre energie alternative non inquinanti. Rinuncia cioè ai propri scopi. E anche in questo caso va incontro all’autodistruzione.
Alla guida dell’agire del mondo si pone la tecnica, l’ideologia vincente che sostituisce il capitalismo alla guida del mondo e ha come scopo l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi. L’ultimo Dio.
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