Paolo Mieli
"Corriere della Sera", 9 dicembre 2014
Si calcola che nel 430 a.C. gli abitanti di Atene fossero all’incirca 155 mila e che due o trecentomila persone vivessero nelle altre città-Stato (70 mila a Corinto, 40 mila a Sparta). Al massimo i «greci» ammontavano a mezzo milione di individui. I persiani, nella stessa epoca, erano quaranta milioni. Eppure i primi ebbero la meglio sia sulla terra, a Maratona (490 a.C.), che sui mari, a Salamina (480 a.C.). Di più. La geografia della Grecia contraddice la tesi secondo cui in tempi successivi la supremazia europea sarebbe stata riconducibile a favorevoli condizioni geografiche. In Grecia, ha fatto osservare Leopold Migeotte, persino le terre migliori erano sassose e la loro produttività «mediocre». Victor Davis Hanson ha sottolineato che la Grecia «non dispone neanche di un solo fiume navigabile e ha la disgrazia di non avere risorse naturali». E invece i grandi imperi dell’epoca — Egitto, Persia, Cina — occupavano enormi e fertili pianure, attraversate da grandi fiumi. Eppure è lì — nell’Atene del VI e V secolo a.C. — che ha avuto inizio quella che oggi chiamiamo la «civiltà occidentale». Civiltà alla quale Rodney Stark ha dedicato un libro, La vittoria dell’Occidente. La negletta storia del trionfo della modernità, pubblicato dall’editore Lindau.
Per Stark il termine «modernità» vuole indicare «quella miniera di conoscenze e procedure scientifiche, di efficaci tecnologie, di successi artistici, di libertà politiche, di meccanismi economici, di sensibilità morali e di miglioramento delle condizioni di esistenza che caratterizzano le nazioni occidentali e ora stanno rivoluzionando la vita nel resto del mondo». Con l’esplicita implicazione che «quanto più le altre culture non sono state in grado di adottare almeno gli elementi principali di quella occidentale, tanto più sono rimaste arretrate e impoverite». I cinesi, ad esempio, inventarono la polvere da sparo molto presto, eppure molti secoli dopo non avevano artiglieria né armi da fuoco. Un’industria siderurgica fiorì nel Nord della Cina nell’XI secolo, ma i mandarini della corte imperiale dichiararono il ferro monopolio di Stato, se ne impadronirono e così distrussero la produzione siderurgica cinese.
Già nell’antichità, su tantissime tecnologie cruciali la Cina era molto avanti rispetto all’Europa. Quando però i portoghesi vi arrivarono nel 1517, scrive provocatoriamente Stark, «trovarono una società arretrata in cui le classi privilegiate ritenevano più importante azzoppare le ragazzine bendando loro i piedi, che sviluppare tecniche agricole più produttive di quelle che avevano per far fronte alle frequenti carestie». Perché? E come è stato possibile «per un pugno di funzionari inglesi coadiuvati da pochi ufficiali, di carriera e non, governare l’enorme subcontinente indiano?» Perché la scienza e la democrazia sono nate in Occidente, insieme all’arte figurativa, ai camini, al sapone, alle canne dell’organo e a un sistema di notazione musicale? Perché è accaduto che, per parecchie centinaia di anni a partire dal XIII secolo, soltanto gli europei avevano gli occhiali e gli orologi meccanici? E successivamente telescopi, microscopi e periscopi?
Il merito di tutto quel che è accaduto in materia di sviluppo della civiltà va attribuito alla circolazione delle idee. Sono le «idee», più che le «forze economiche e materiali», all’origine della modernità. Sono le «idee» che spiegano «perché la scienza sia nata soltanto in Occidente»: solo gli occidentali «hanno pensato che la scienza fosse possibile, che l’universo funzionasse secondo regole razionali che potevano essere scoperte». E nel momento in cui riconosciamo il primato delle idee, «ci rendiamo conto dell’irrilevanza delle interminabili discussioni accademiche per stabilire se determinate invenzioni vennero messe a punto autonomamente in Europa o furono importate dall’Oriente». Come la polvere da sparo in Cina. Partito da queste premesse, Stark passa alla confutazione di alcune opinioni assai diffuse sulla storia dell’Occidente. Il primo impero sorse in Mesopotamia più di seimila anni fa, poi vennero quelli egiziano, cinese, persiano e indiano. Tutti furono travagliati da croniche lotte per il potere all’interno delle élite dominanti, ma, a parte queste lotte, qualche guerra con i popoli confinanti e progetti di grandiose opere pubbliche, nella loro storia «accadde poco o nulla». I cambiamenti, sia tecnologici che culturali, «erano così lenti da passare quasi inosservati». I secoli si susseguivano e la maggior parte della gente continuava a vivere, come ha scritto Marvin Harris, «un pelo al di sopra della pura e semplice sussistenza; poco meglio dei loro buoi». Fu solo la Grecia del VI e V secolo a.C. che fece fare un salto alla storia dell’umanità. Un salto preparato da molto tempo. Dal momento che lì «condizioni geografiche sfavorevoli» con le conseguenti «mancanza di unità e competizione» provocarono appunto la «rivoluzione delle idee». I greci, precisa Stark, «non furono i primi a interrogarsi sul senso della vita e sulle cause dei fenomeni naturali; furono però i primi a farlo in modo sistematico». Come ha scritto Martin West, «insegnarono a se stessi a ragionare».
Poi fu la volta di Roma. Anzi, di quello che Stark chiama l’«intermezzo romano». Perché, scrive, «nella migliore delle ipotesi considero l’impero romano una pausa nell’ascesa dell’Occidente, e più probabilmente una battuta d’arresto». Oltre alla mancanza di innovazioni tecnologiche, «i romani sfruttarono poco o nulla alcune tecnologie già esistenti; per esempio, conoscevano perfettamente la ruota ad acqua, ma preferivano usare il lavoro degli schiavi per macinare la farina». E anche i celebrati testi di Plauto e Terenzio furono per intero di derivazione greca. Per Stark «ai fini dello sviluppo della civiltà occidentale, la caduta dell’impero romano non è stata un’immane tragedia, bensì il fatto in assoluto più benefico». I «molti soporiferi secoli di dominazione romana» hanno visto due soli significativi fattori di progresso: «L’invenzione del cemento e l’ascesa del cristianesimo, quest’ultima avvenuta nonostante i tentativi dei romani di impedirla». A cadere poi «fu Roma, non la civiltà; i goti non tornarono improvvisamente alla barbarie; e i milioni di abitanti dell’ex impero non dimenticarono improvvisamente quel che sapevano». Al contrario, scrive Stark, «con la fine dei paralizzanti effetti della repressione romana, riprese il glorioso cammino verso la modernità». Quanto alla svolta di Costantino, scrive l’autore, l’immenso favore dimostrato da quell’imperatore romano al cristianesimo «finì per danneggiarlo». Nella sua storia del papato, Eamon Duffy ha fatto notare che Costantino elevò il clero a tali livelli di ricchezza, potere e status che i vescovi «divennero figure eminenti al pari dei senatori più ricchi». Con la corruzione che ne derivò.
Successivamente i «secoli bui» non furono mai tali; al contrario, il Medioevo è stato un’epoca di notevole progresso e innovazione, tra cui «l’invenzione del capitalismo». La maggior parte degli europei «iniziarono a mangiare meglio di come avessero mai mangiato nel corso della storia e di conseguenza divennero più grandi e forti di coloro che vivevano altrove». Nel 732, gli invasori islamici, quando penetrarono in Gallia, si trovarono di fronte «un esercito di franchi splendidamente armati ed addestrati e furono sconfitti». In seguito, «i franchi conquistarono la maggior parte dell’Europa e misero sul trono un nuovo imperatore». Ma presto quel sogno si infranse. Un peccato? No, reagisce l’autore, «è una fortuna che quella costruzione sia andata in frantumi» e la «creativa disunità dell’Europa» sia stata ristabilita. Va poi aggiunto che «sebbene svariati storici abbiano dedicato molta più attenzione all’impero carolingio che ai vichinghi, questi ultimi, per l’ascesa dell’Occidente, hanno avuto un ruolo di gran lunga più significativo e duraturo dei primi». Non è vero, poi che i crociati, in seguito, abbiano «marciato verso oriente per conquistare terre e bottino». Anzi. Si erano «indebitati fino al collo per finanziare la propria partecipazione a quella che consideravano una missione religiosa». I più «ritenevano improbabile la possibilità di sopravvivere e di tornare in patria (e infatti non tornarono)». Come dimostrano le crociate, «per gli europei la vera base dell’unità era il cristianesimo, che si era trasformato in una ben organizzata burocrazia internazionale». A tal punto che «sarebbe più corretto parlare di Cristianità più che di Europa, dal momento che, all’epoca, quest’ultima aveva ben poco significato sociale o culturale». Fu questo il periodo in cui nacque davvero il capitalismo. Gli europei si arricchivano dopo aver imparato a sfruttare le fonti di energia. Alla fine del XII secolo, racconta Stark, «l’Europa era così affollata di mulini a vento che i proprietari cominciarono a denunciarsi a vicenda con l’accusa di portarsi via il vento».
Nel XVII secolo, infine, non c’è stata nessuna «rivoluzione scientifica»: i brillanti successi di quell’epoca «sono stati semplicemente il culmine di un normale progresso scientifico, iniziato nel XII secolo con la fondazione delle università». La Riforma «non ha portato alcuna libertà religiosa, ma ha semplicemente sostituito repressive e accentratrici Chiese cattoliche con altrettanto repressive e accentratrici Chiese protestanti». L’Europa «non si è arricchita drenando ricchezza dalle sue colonie sparse per il mondo»; al contrario «sono state le colonie ad aver drenato ricchezza dall’Europa, nel contempo acquisendo i benefici della modernità». Stark ci esorta a paragonare le tragedie di Shakespeare a quelle dell’antica Grecia. Non che Edipo «fosse senza colpe, però non aveva fatto nulla per meritare la sua triste fine: fu semplicemente vittima del destino; al contrario, Otello, Bruto e i Macbeth non furono prigionieri di un destino cieco». Che significa questo discorso? Che «uno dei fattori più importanti nel favorire l’ascesa dell’Occidente è stata la fede nel libero arbitrio; mentre la maggior parte delle antiche società (se non tutte) credevano nel fato, gli occidentali giunsero alla convinzione che gli esseri umani sono relativamente liberi di seguire quello che detta la propria coscienza e che, essenzialmente, sono artefici del proprio destino». E qui l’autore smonta punto per punto la famosa tesi di Max Weber secondo cui l’etica protestante sarebbe all’origine del capitalismo (ma a quest’opera di demolizione aveva già pensato Fernand Braudel definendola «debole tesi» per di più «chiaramente falsa»).
Esattamente «come gli insegnamenti di Sant’Agostino avevano segnato un cambiamento nell’atteggiamento cristiano nei confronti del commercio, i teologi che hanno poi assistito alle fiorenti attività economiche dei grandi ordini religiosi, cominciarono a rivedere le dottrine su profitto e interesse». Fu lì, a ridosso dell’anno Mille, che nacque una sorta di protocapitalismo «molti secoli prima che esistessero i protestanti». Poi, a metà del Trecento, dopo l’epidemia provocata dalla Peste Nera, «la scarsità di manodopera», come ha dimostrato David Herlihy, «stimolò le invenzioni e lo sviluppo di tecnologie che consentissero di risparmiare forza lavoro». Quindi l’Europa medievale «vide l’ascesa del sistema bancario, di un’elaborata rete manifatturiera, di rapide innovazioni in campo tecnologico e finanziario, nonché una dinamica rete di città commerciali». Va anticipato ad allora l’inizio, o quantomeno i «primi passi», di quella che avremmo definito la «Rivoluzione industriale». Già da molto tempo l’Europa era più avanti del resto del mondo in fatto di tecnologia, «ma alla fine del XVI secolo quel divario era ormai diventato un abisso».
E qui Stark si avvale di una notazione ai margini della battaglia di Lepanto (ottobre 1571). Quando saccheggiarono le imbarcazioni turche ancora non affondate, i marinai cristiani vittoriosi scoprirono un autentico tesoro in monete d’oro a bordo della «sultana», l’ammiraglia di Ali Pasha, e ricchezze quasi altrettanto ingenti furono trovate nelle galee di parecchi altri ammiragli. Il perché lo ha spiegato Victor Davis Hanson: «Non essendoci un sistema bancario, temendo una confisca qualora avesse scontentato il sultano e sempre attento a tenere i propri averi al riparo dell’attenzione degli esattori fiscali, Ali Pasha si era portato la sua immensa ricchezza a Lepanto». Eppure, fa notare Stark, Ali Pasha «non era un contadino che nascondeva il surplus del raccolto, ma un membro dell’élite dominante… se una persona come lui non era in grado di trovare investimenti sicuri e non se la sentiva di lasciare i suoi soldi a casa, come era possibile che qualcun altro potesse sperare di far meglio?». Il concetto che, in epoca medievale, la cultura islamica fosse molto più avanzata di quella europea «è un’illusione». E in queste pagine sono trasparenti le allusioni agli abbagli provocati di recente dalle cosiddette primavere arabe. Più che trasparenti: esplicite.