Valerio Magrelli
"La Repubblica", 12 dicembre 2014
QUELLA di Paul Valéry è la storia di una strana metamorfosi, e il Meridiano che la sua maggiore studiosa italiana, Maria Teresa Giaveri, ha appena curato col titolo Opere scelte (Mondadori, pagg. 1771) non fa che confermarlo nel migliore dei modi, anche grazie a un’ottima squadra di cinque traduttori (Maria Teresa Giaveri, Antonio Lavieri, Massimo Scotti, Paola Sodo e Anita Tatone). Diviso in sei parti, il volume spazia dalla poesia alla prosa poetica.
Dai dialoghi al teatro, con una voce che, dedicata a Modelli e strumenti del pensiero, accoglie alcuni testi posti nel segno di tre “eroi intellettuali”: Monsieur Teste, Leonardo da Vinci e Robinson (proprio quello di Defoe, spiega la Giaveri, trasfigurato in nume tutelare della attività cerebrali). Quanto all’ultima sezione, sulla saggistica, vi ritroviamo ambiti diversi quali pittura, letteratura e estetica, senza dimenticare Attualità e politica. Davvero un bel crogiuolo! Ma come conciliare versi metricamente analoghi a quelli di un Racine, con interventi di taglio geopolitico o sociologico?
Come far convivere nella stessa persona lo studioso di matematica e quello di estetica, il critico letterario e l’esperto di medicina? In verità ci troviamo di fronte a un essere “almeno” doppio, come i mostruosi fauni tanto cari al suo grande maestro, Mallarmé. D’altronde, ultimo erede del simbolismo, Valéry fu anche l’intellettuale capace di prevedere l’avvento della televisione già nel 1928: «Verrà un giorno in cui un tramonto sul Pacifico, o un Tiziano del museo di Madrid, appariranno sul muro della nostra camera in modo altrettanto potente ed illusorio di una sinfonia diffusa via radio. Come l’acqua, il gas o l’energia elettrica, con uno sforzo quasi nullo arrivano nelle case da lontano per rispondere ai nostri bisogni, così saremo alimentati da impulsi visivi o auditivi, che nasceranno o svaniranno a un minimo segno, quasi un cenno». Inoltre, descrivendo un futuro gestito da una “società per la distribuzione di Realtà Sensibile a domicilio”, il poeta si spinge addirittura a preconizzare la moderna nozione di link: « Prima o poi, sarebbe interessante fare un’opera che mostrasse in ognuno dei suoi nodi, la diversità che vi si può presentare alla mente, e tra cui essa sceglie l’unico seguito che sarà offerto nel testo». Comunque, a ben vedere, non c’è da stupirsi troppo, tenendo conto dei suoi vivi interessi scientifici, e di una corrispondenza in cui troviamo, tra i nomi di filosofi e di fisici, quelli di Henri Bergson o Albert Einstein.
Dicevamo però delle mutazioni a cui andò incontro la sua figura. Nel 1896 bastò una sua breve prosa, La serata con Monsieur Teste , per farne la stella dei giovani letterati francesi, destinati a innescare di lì a poco la bomba dada e l’incendio surrealista. André Breton, che in seguito lo volle come testimone di nozze, dichiarò di avere conosciuto quasi a memoria quell’opera, apparsa proprio l’anno della sua nascita. E questo fu solo l’inizio di un successo letterario e mondano dai particolarissimi risvolti. Dopo quasi un ventennio di apparente silenzio, tra il 1917 e il 1920 apparvero infatti una serie di poemetti che abbagliarono alcuni fra i massimi poeti europei, Ungaretti, Rilke e Guillén, che di lì a poco ne diverranno anche i traduttori. Dopo LaGiovane Parca, fu soprattutto il Cimitero marino che impose Valéry agli occhi del mondo: «Non è forse la poesia più famosa del nostro tempo?», si chiedeva ad esempio, ancora nel 1957, uno storico dell’arte come Cesare Brandi.
Le trasformazioni, tuttavia, non erano finite. In certo modo, nemmeno l’autore di quegli abbaglianti alessandrini o decasillabi corrisponde allo stesso che leggiamo oggi. Ad esso, infatti, è andato sostituendosi un nuovo, per così dire “terzo”, Valéry. Sia chiaro, dopo le delusioni subite da Breton e compagni (che videro con orrore il proprio idolo volgersi al classicismo), non mancarono i detrattori della poesia valeriana. Basti citare Nathalie Sarraute, Cioran, Gombrowicz o Bonnefoy, radicalmente contrari a una versificazione rimata, anacronistica e aliena come un “meteorite”. Tuttavia, lo si è detto, ormai tali reazioni appaiono, sotto molti aspetti, datate, poiché dopo la morte dello scrittore è emerso un continente sconosciuto, un’autentica Atlantide letteraria.
Mi riferisco agli ormai leggendari Quaderni, delle cui venticinquemila pagine esiste un’edizione fotografica in 29 volumi, mentre sta lentamente uscendo un’edizione critica integrale (Adelphi ne ha pubblicato una scelta in cinque volumi). Se si pensa che, secondo molti critici, l’insieme di questi testi costituisce l’impresa suprema di Valéry, è facile capire quanto sfocati risultino i giudizi finora formulati. È un po’ come parlare della Francia senza aver visitato Parigi...
Di cosa si tratta? Immaginate una specie di diario mentale, o meglio, un laboratorio autocognitivo approntato, mattina dopo mattina, nel corso di mezzo secolo. Gran parte dei Cahiers fu composta all’alba, da un “pensatore mattiniero” che ricorreva a innumerevoli tazze di caffè (vedi Balzac).
Dopo quelle poche ore di assoluta concentrazione, Valéry rivendicava il diritto di essere stupido per tutto il resto del giorno. «Amo il pensiero come altri amano il nudo, che disegnerebbero per tutta la vita», leggiamo in un suo aforisma. Ma a parte queste vere folgorazioni («Il ciclone può distruggere una città [..] ma non riuscirà mai a sciogliere un nodo»), i Cahiers , nota la Giaveri, sono soprattutto uno strumento gnoseologico: “esercizio spirituale” secondo l’esempio di Ignazio di Loyola, “ginnastica” come per un atleta, “dressage” come per il cavallo Gladiator, o danza, scherma, scacchi – insomma, l’occasione per un processo di perfezionamento personale. Per questo sembra giusto terminare con il breve, toccante necrologio di Borges: «Yeats, Rilke e Eliot hanno composto versi più memorabili […] Joyce e Stefan George hanno compiuto modificazioni più profonde nel loro strumento linguistico; ma dietro l’opera di quegli eminenti artefici, non c’è una personalità paragonabile a quella di Valéry».
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