De Sanctis, Mussolini, Gramsci: a ciascuno il suo «Principe»
Luciano Canfora
"Corriere della Sera", 11 dicembre 2014
Un dotto francese di fede protestante, prudentemente trapiantatosi a Londra proprio a ridosso della Rivoluzione, Louis Dutens (1730-1812), scrisse un ponderoso trattato apparso per la prima volta nel 1766, poi più volte ristampato, per dimostrare che Le scoperte attribuite ai moderni, anche nel campo delle scienze matematiche e fisiche, erano già state pensate dagli antichi. Reagì polemicamente D’Alembert. Ma Dutens sfoderava, nel suo trattato, anche talune dichiarazioni dei grandi moderni pronti a dirsi debitori verso gli antichi. Fu quasi un secondo tempo della Querelle. In particolare colpivano le parole attribuite a Leibniz e riportate da Dutens (che di Leibniz fu benemerito editore): «Signore — avrebbe detto Leibniz ad un devoto visitatore —, Lei mi ha usato spesso la gentilezza di dirmi che io so qualcosa; ebbene io voglio mostrarvi le fonti da cui ho attinto tutto quello che so»; e, prendendo per mano il dotto amico, lo portò nel suo studio e gli mostrò le edizioni, che aveva sempre sottomano, di Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Euclide, Archimede, Plinio il Vecchio, Seneca e Cicerone.
L’impostazione di Dutens era ingenua, ma poneva un problema vero: l’uso creativo degli antichi da parte dei moderni. Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes, l’uno a cavallo tra Quattro e Cinquecento, l’altro in pieno Seicento, e già maturo pensatore mentre Leibniz nasceva, offrono la migliore materia per cimentarsi con la questione. Non è certo casuale che, nell’Introduzione alla recentissima Enciclopedia Machiavelliana prodotta — nel cinquecentesimo anniversario del Principe — dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (direttori dell’opera Gennaro Sasso e Giorgio Inglese), Sasso dedichi un denso paragrafo al tema L’imitazione dell’antico (vol. III, pp. XLVIII-XLIX). Sasso si concentra, ovviamente, sui Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, dove l’operazione è resa trasparente dal fatto stesso di porre il racconto liviano della storia romana alla base della riflessione. Sasso mette in luce l’aporia intrinseca in quel modo di procedere: se «gli uomini» — osserva — erano, naturalisticamente intesi, «gli stessi», come mai si erano fatti in realtà tanto diversi da far sorgere il problema dell’estrema difficoltà di tornare ad essere come quegli antichi?
Nel proemio al primo libro dei Discorsi Machiavelli addirittura sembra quasi anticipare quell’assunto cui Dutens — per parte sua convinto che Machiavelli fosse solo un ripetitore degli antichi — dedicherà tante energie: che cioè le conquiste scientifiche (in particolare la medicina) erano già state attuate dagli antichi. E deplora che proprio nella politica il modello antico venga ignorato e disatteso. Hobbes, invece, nelle pagine introduttive al De Cive, dirà con tutta l’asprezza necessaria, che Aristotele si è sbagliato nell’assunto fondamentale della Politica (la naturale «socievolezza» degli uomini): «Questo assioma — dirà —, sebbene accolto da molti, è falso».
L’apparente dilemma si risolve in realtà constatando che proprio quei fondatori della modernità — Machiavelli, Hobbes, Leibniz — hanno pensato il nuovo dialogando con gli antichi. È questo che Leibniz intendeva quando additava al suo visitatore i libri che avevano sustanziato il suo pensiero.
Se Machiavelli, Hobbes, Leibniz non poterono non dialogare con gli antichi, noi non possiamo non dialogare con Machiavelli, Hobbes e con tutti coloro che, lottando per dischiudere la modernità, incominciarono proprio da quel remoto, e pur sempre fresco, punto di partenza. Questo genere di dialogo si risolve, per lo più, in una feconda forzatura: si fa dire, ai libri fondativi che ci precedettero, ciò che noi vi leggiamo o vogliamo leggervi proprio perché, con l’aiuto di una tale «pietra focaia», pensiamo, o cerchiamo di pensare, i nostri pensieri: quelli del presente e del tempo che sentiamo imminente. Lo facciamo con i classici antichi e con i classici moderni: per esempio proprio con Machiavelli. E l’Enciclopedia che qui segnaliamo assolve egregiamente a tale compito, a tale funzione chiarificatrice. Essa ci mostra, voce dopo voce, articolo dopo articolo, non solo quale originalissimo «Ierone siracusano» sia il tiranno visto da Machiavelli, ma anche quale originalissimo Machiavelli sia il Machiavelli di Ugo Foscolo o di Francesco De Sanctis o, ai limiti del totale stravolgimento dell’originale, il Machiavelli di Antonio Gramsci. E ancora: quello demonizzato dalla Controriforma — il «cattivo maestro» — che ritorna curiosamente nello scontro tra fazioni bolsceviche in pieno XX secolo (si veda la voce «Russia» in questa Enciclopedia); e poi il Machiavelli arruolato senza tanti complimenti dal pessimismo antropologico del «tacitismo»: fino alla sua manifestazione postrema nel Preludio al Machiavelli di Mussolini, ispirato — in ciò Gramsci vide giusto — all’insopportabile e oligarchico pessimismo di Giuseppe Rensi.
Ovviamente il compito degli storici e dei filologi non è solo quello di rimirare la creativa fecondità di un pensiero (e la sua possibile vitalità ben oltre gli intendimenti dell’autore), ma anche, e non meno, di recuperare l’esatta nozione di ciò che quel determinato autore disse, scrisse e pensò: di scrostare dunque, di sull’originale, le rigogliose e «necessarie» incrostazioni dei posteri. L’Enciclopedia Machiavelliana rende molto bene anche questo prezioso servigio, e dobbiamo perciò essere grati alla squadra che l’ha saputa realizzare.
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