domenica 28 settembre 2014

Com’è snob la passione di Cavalcanti per Aristotele



Punto di riferimento culturale e letterario per il giovane Dante 
utilizza sempre al meglio tutti i termici tecnici della fenomenologia d’amore
Anche in questo sonetto il cuore è il luogo della concupiscenza 
e non porta né a Dio né all’universale

Walter Siti

"La Repubblica", 28 settembre 2014

Nei suoi versi non c’è sviluppo narrativo 
La sintassi si fonde con la metrica, 
ogni quartina e ogni terzina sono una frase compiuta 
Malgrado il suo enorme malinconico autocontrollo di stampo aristocratico 
ha lasciato alla lirica italiana una grandissima eredità: il ritmo delle parole


È COLPA di Dante se a Cavalcanti è stato affibbiato il ruolo improprio di “precursore”; fiorentino e guelfo bianco come lui, di famiglia più ricca e potente, d’una decina d’anni maggiore, Cavalcanti è stato per il giovane Dante un punto di riferimento culturale e letterario; Dante lo chiama il suo “primo amico” e dichiara di considerarlo destinatario privilegiato della Vita nova. Ma i loro temperamenti erano diversi e le loro idee finirono per essere in conflitto. All’inizio c’era tutto un gruppetto, tra Firenze e Pistoia, che partendo dalle teorie dell’amor cortese sfruttava i minimi incidenti della vita sentimentale per ragionare in versi di psicologia e nobiltà interiore. Le donne erano astratte, coperte da nomi simbolici; idealizzate, vestite di luce e d’onestà, apparivano per portare agli uomini la bellezza e il corretto sentire. Cavalcanti era il leader, forse controvoglia: il più esperto in filosofia naturale e medicina, quello che meglio padroneggiava i termini tecnici della fenomenologia d’amore.
Questo sonetto è una vera e propria rappresentazione teatrale, la cui scena è l’interiorità del poeta e i cui attori sono Amore, gli spiriti, il cuore, l’anima e la mente. La donna (a cui si dà del “voi”) è la causa iniziale del dramma oltre che la spettatrice auspicata. Voi che mi avete trafitto il cuore attraverso gli occhi, essendo da me guardata, guardate come avete ridotto la mia vita, che Amore la distrugge a forza di sospiri. Amore è un guerriero, con le sue frecce ferisce con tanta violenza che al suo avanzare i miei poveri spiriti scappano (gli spiriti, secondo una tradizione risalente ad Aristotele, sono i fluidi sottili che collegano al cuore le varie membra e presiedono alle funzioni emotive); così lasciano in potere d’Amore (“en segnoria”) il mio nudo aspetto esterno (“figura sol”), come un automa che si lamenta con un misero residuo di voce (“alquanto” nel senso di “appena un po’”). La forza partita dai vostri occhi è stata così rapida e ha centrato il bersaglio con tanta precisione al primo colpo, che l’anima si è traumatizzata vedendosi morto, sul lato sinistro, il cuore.
Per Cavalcanti il cuore è il luogo fisico della concupiscenza, l’anima è la facoltà sensitiva individuale, la mente è la facoltà intellettiva (quella che è stata “destata” al v. 2 dalla catastrofe amorosa); secondo il suo aristotelismo radicale, tra facoltà sensitiva e facoltà intellettiva universale non ci può essere continuità; quindi l’amore, che proviene dalle zone oscure del desiderio (una “oscurità che viene da Marte”, lo definisce in una canzone), non può condurre alla conoscenza della bellezza universale né avvicinare a Dio. Non c’è omogeneità tra l’idealizzazione mentale della donna e la crudezza dei sintomi fisiologici. L’amore resta dunque un ambiguo privilegio: da una parte è segno di elezione, perché solo gli uomini migliori si svegliano al suo richiamo e ne avvertono la potenza, ma dall’altra provoca al suo arrivo strazio e devastazione (“distrugge”, “disfatto”), insanabile disarmonia tra le facoltà umane. È su questo punto che la divergenza intellettuale con Dante diventa insanabile: Dante pretende che la sua Beatrice sia creatura divina, è convinto che l’amore può essere scala di comprensione universale. Bisogna superare il tema del lamento (costi biograficamente quel che costi) e sforzarsi di capire di più; il sonetto di Cavalcanti porta in filigrana le Lamentazioni di Geremia («voi che passate per la strada… guardate il mio cuore che si distrugge… il Signore tese il suo arco, mi piantò le sue frecce nei reni») ed è proprio con una citazione di quel passo biblico che dal fondo del dolore per la morte di Beatrice, nella Vita nova, faticosamente comincia la risalita — dal dolore si arriverà al riconoscimento degli occhi di Beatrice in paradiso. Nell’ansia di un distacco necessario, forse Dante ha perfino accusato l’aristotelismo radicale dell’amico di vicinanza con l’eresia di Averroè (solo l’anima intellettiva universale è sottratta alla morte, l’anima sensitiva individuale muore col corpo), se nel X canto dell’ Inferno si parla di Guido alla presenza di suo padre e di suo suocero, entrambi lì in quanto eretici.
Temperamenti diversi, si diceva: raffinato e snob Cavalcanti, più rozzo (fatta la tara del genio) e realistico Dante; il primo vive il suo teatro passionale con distacco nominalistico, pronto all’autoparodia (in un sonetto si beffa apertamente della teoria degli spiriti), il secondo prende tutto sul serio — rovescia la letteratura come un guanto per arrivare dove vuole. In Cavalcanti non c’è sviluppo narrativo: la sua poesia è bloccata nell’autocontrollo aristocratico, in una solitudine orgogliosa e malinconica. Eppure qualcosa ha lasciato a Dante e alla lirica successiva, ed è il ritmo delle parole. La sua sintassi si fonde con la metrica: ogni quartina e terzina una frase compiuta e ogni verso uno snodo (relativa, consecutiva, coordinata). Mentre la lirica si stava svincolando dall’obbligo di esser cantata, Cavalcanti ha insegnato (con la sua tastiera ristretta, gioco combinatorio di poche parole-concetto) che la poesia non ha bisogno di strumentazione da fuori, perché la musica ce l’ha dentro.

Nessun commento:

Posta un commento