Una riflessione su quanto il modo di comunicare
influenzi il contenuto della comunicazione
Da McLuhan a oggi
Umberto Eco
"La Repubblica", 13 settembre 2014
Il testo di Umberto Eco è un capitolo dell’intervento tenuto a Camogli, al Festival della Comunicazione e intitolato “Comunicazione: soft e hard”.
COMUNICAZIONE è una parola di cui tutti credono di conoscere il significato e viene usata nelle circostanze più diverse… Per esempio, sin da tempi immemorabili, si è parlato di vie di comunicazione, come le strade romane, e di mezzi di comunicazione per quelli che si chiamano anche mezzi di trasporto, come i carri, le navi, i treni e gli aerei. Pensate alla sorpresa del turista che ad Atene vede grandi automezzi con sopra scritto metaphora. Dapprima si ammira la grandezza umanistica di quel popolo, poi ci si accorge che si tratta di automezzi che si occupano di traslochi: E infatti trasporto è stato chiamato nel mondo classico l’artificio metaforico che traspone il significato di un termine letterale a un termine figurato. Quindi si ha trasporto quando trasferisco una mia idea nella mente di qualcun altro e trasporto quando si trasferisce un pacco postale da Milano e Roma.
Si tratta soltanto di una semplice omonimia? Torniamo indietro alle prime teorie della comunicazione che potremmo riassumere come passaggio di messaggio da un emittente al destinatario lungo un canale, sulla base di un codice comune. In effetti il modello funzionava benissimo per la comunicazione di messaggi molto elementari come quelli in Morse — che possono essere decodificati e trascritti anche da un apparato meccanico. La teoria considerava anche il canale attraverso il quale passava il messaggio (come aria, fili elettrici o onde hertziane) ma il canale era una componente puramente meccanica che non incideva sulla natura dei messaggi, salvo casi accidentali di rumore… Oltre a varie altre complicazioni del modello iniziale, una rivoluzione è avvenuta all’inizio degli anni sessanta con la focalizzazione del problema del canale. Nel modello comunicativo elementare il canale era come un tubo attraverso il quale passava informazione. Era neutro. È stato McLuhan a concentrare le propria attenzione sul medium, che altro non era che un altro nome per il canale. Con la formula il medium è il messaggio McLuhan ha sostenuto che coi nuovi mezzi elettronici il medium poteva rendere il destinatario talmente dipendente dal canale da rendere irrilevante la natura del messaggio. La posizione di Mc Luhan è stata criticata, osservando che infinite volte l’informazione rimane costante e indipendente dal canale attraverso cui passa. Il 10 giugno 1940 il fatto che l’Italia avesse dichiarato guerra alle potenze alleate rimaneva indiscutibile sia che lo si fosse appreso per radio in diretta dal discorso del Duce sia che lo si fosse letto il giorno dopo su L’Osservatore romano. Ma rimane indiscutibile che la partecipazione emotiva del destinatario e quindi la valutazione dell’evento veniva influenzata dalla natura del medium.
McLuhan, generalizzando, usava dei paradossi, ma qualcosa aveva capito. Pensiamo per esempio alla polemica nata in Italia quando si doveva decidere se passare dalla televisione in bianco e nero a quella a colori. Le preoccupazioni erano allora di carattere economico, ma il risultato è stato di carattere psicologico. La televisione a colori ha dato inizio al riflusso degli anni ottanta, alla perdita d’interesse nei messaggi, e alla pura degustazione delle meraviglie del nuovo mezzo. E pensiamo al dibattito politico che infuria sui nostri teleschermi: tranne casi virtuosi, il pubblico non è interessato a quello che vi si dice, anche perché le voci sovrapponendosi l’una all’altra rendono irrilevante il contenuto delle affermazioni: il vero messaggio è il diverbio, il confronto quasi circense tra gladiatori, non si è conquistati dagli argomenti dei parlanti, ma dalle prodezze dei reziari.
Ho intitolato questo mio intervento agli aspetti soft e hard della comunicazione. Pensiamo che in principio sia hard il canale, la ferraglia, che può essere fatta da un corriere cavallo, da un vagone postale o da onde hertziane. In linea di principio la ferraglia non ha mai interferito con la natura del messaggio. Il messaggio dipendeva invece dal programma e soft era il rapporto tra tenore del messaggio e codice. E quello che caratterizzava la ferraglia era che essa prendeva tempo: di qui le lancinanti attese per una lettera di risposta e i lunghi intervalli comunicativi nel corso dei quali l’emittente si chiedeva se il destinatario avesse ricevuto e come avrebbe risposto, e il destinatario attendeva emozionato la lettera che tardava a venire.
Il rapporto ha iniziato a mutare col telegrafo senza fili, con la radio e con il telefono. Il telegrafo consentiva ricezione e risposta immediata, ma implicava delle istanze mediatrici (l’andata all’ufficio telegrafico, la trascrizione del telegrafista in partenza e la nuova trascrizione in arrivo, oltre ai tempi di consegna del messaggio — salvo ovviamente comunicazioni militari o marittime). La radio e la televisione consentivano una emissione immediata ma non consentivano risposta. Il telefono consentiva rapporti istantanei di azione-reazione tra emittente e destinatario, ma occupava solo parte della nostra giornata, e prendeva tempo se si doveva ricorrere alla mediazione di un centralino. La vera rivoluzione è avvenuta col computer, l’e-mail e i telefonini cellulari. In questi casi il rapporto è temporalmente immediato. Sia nel caso del nerd che passa le notti on line, che in quello dei telefonatori compulsivi che vediamo camminare per strada parlando a qualcuno, abbiamo un processo domanda-risposta che non prende tempo. In che modo questa modificazione della ferraglia viene a incidere sulla natura del messaggio?
Per il telefonino la situazione è intuitiva ed è stata ampiamente studiata. Tranne casi estremi il drogato del cellulare non parla o risponde per comunicare pensieri o fatti urgenti, ma per mantenere il contatto e quindi per mantenersi in contatto. Di solito parla a vuoto. Questo gli evita la solitudine ma lo relega a un rapporto meramente virtuale in cui la personalità di emittente e destinatario si vanificano sempre più... Altro accade con la e-mail. Mi limiterò a considerare un evento di cui sono stato testimone… Un tale (lo chiameremo Pasquale) ha passato alcuni anni in una azienda, stimato da superiori e colleghi per la sua cortesia e disponibilità. Magari covava delle insoddisfazioni, ma non lo lasciava capire. Pasquale viene inviato all’estero per una missione di fiducia, e si tiene in contatto con i colleghi via e-mail. Un amico gli comunica (via e-mail) che gli è stato fatto un torto: un suo progetto, che aveva lasciato prima di partire, è stato giudicato insufficiente e affidato a un altro che lo ha rifatto. Giusto o meno che fosse, è comprensibile che Pasquale si prenda una grande arrabbiatura.
Quando ci arrabbiamo per una presunta ingiustizia, nel momento dell’ira siamo disposti a dire che chi ci ha fatto il torto è un imbecille, che “quelli” non ci hanno mai capito, che ci hanno fatto passare davanti dei leccapiedi, e ci viene voglia di mandare tutti al diavolo. Poi di solito si lascia sbollire l’ira, si chiede un colloquio (a cui ci si prepara nel corso di alcune notti insonni) e, con tono fermo e dolente, si domandano spiegazioni. Se si è lontani si scrive una lettera, la si rilegge prima di spedirla, la si corregge più volte per ottenere il tono più efficace. Invece Pasquale ha ricevuto la notizia e immediatamente (come gli consentiva la e-mail) ha scritto al responsabile del presunto torto trattandolo da mascalzone, accusandolo di aver concesso favori aziendali in cambio di prestazioni sessuali, e quando quello ha risposto irritato (via e-mail), chiedendogli se era matto, Pasquale ha rincarato la dose, spiegandogli quali menomazioni fisiche gli avrebbe fatto subire se non fosse stato per la distanza geografica. E siccome un messaggio e-mail può essere inviato contemporaneamente a più persone, Pasquale ne ha inviato copia al capo dell’azienda e ad altri colleghi, aggiungendovi altre riflessioni sulla considerazione che egli aveva per quel luogo, da lui fermamente ritenuto non dissimile da una discarica di rifiuti organici. Era un modo originale di dare le dimissioni? Niente affatto, tutti sono convinti che Pasquale desiderasse continuare a lavorare, il subìto (presunto) non era drammatico, forse il suo informatore aveva esagerato. Pasquale si è probabilmente rovinato la carriera. Che cosa gli è successo? Ha ricevuto una notizia inquietante e l’email lo ha incoraggiato a reagire subito, nonché a dare eccessiva pubblicità alla sua reazione. Isolato dal mondo, lui e la sua rabbia, era solo di fronte allo schermo del computer, che aveva eccitato la parte più oscura del suo animo. Il messaggio ricevuto ha mandato in cortocircuito il suo inconscio, senza lasciargli il tempo di consultare il Superego, come di solito accade. La macchina lo metteva in contatto immediato con tutto il mondo, ma gli imponeva le sue regole di accelerazione, facendogli dimenticare che, nel corso dei secoli, il contratto sociale ha imposto tempi diversi di azione e reazione. Il che ci dice come anche la e-mail (invenzione grande almeno quanto i jet intercontinentali) ponga dei nuovi problemi di maillag al contrario, ai quali dobbiamo psicologicamente adattarci.
Ed ecco che possiamo tornare alla sinonimia apparente di cui ho detto all’inizio, quella tra rapporto comunicativo e trasporto: pareva che si trattasse di due fenomeni diversi, ma abbiamo visto come spesso il modo di trasporto del messaggio possa interferire con la natura del messaggio stesso e sulla forma della sua ricezione.
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