Aldo Busi
Oggi, per scrivere un romanzo senza mirare al mercato dei non lettori che accorrerebbero in massa a comprarlo (come si augura il team degli addetti redazionali che hanno concorso alla sua farcitura equilibrando gli ingredienti bellamente contenutistici e delegando la firma conclusiva al più glamorous rappresentante di commercio letterario del momento vezzeggiato da media acconci alla raccolta pubblicitaria e basta) occorre ardore, costanza, coraggio, sacrifici, salute, ostinazione, spirito di non adattamento, spese vive e sprezzo del ridicolo tre volte di più che nell’Ottocento e dieci volte di più che fino al 2000.
Perché chi lo scrivesse non può ignorare che qualsiasi simile opera di letteratura, la cui sedimentazione è durata magari trent’anni e una decina la sua stesura, non dura più di un tweet, e sarà numericamente infinitamente meno letta e presa in considerazione di un hashtag — per opera di letteratura si intenda una merce non intenzionalmente commerciale nemmeno a fini di trasposizione televisiva, e dico televisiva e non cinematografica perché tutto è tivù, internet compreso, e il cinema è morto, un po’ come l’arte contemporanea, la musica contemporanea, il teatro contemporaneo, morta è ogni cultura che non sia mangereccia, collettivamente partecipata e che non raggiunga il suo apice in un karaoke da social network o da sagra del cartaceo con incontro d’autore transeunte come un würstel a tutta birra dall’esofago al water. È possibile scrivere una simile opera di letteratura consapevoli dell’oblio incorporato, non in quanto risaputo fine di tutte le cose nel tempo ma immediato, anzi, sincronico allo scriversi dell’opera stessa?
Come non voglio rispondere a una tale domanda, perché d’istinto sarebbe no, non è possibile, non è più possibile e con l’istinto soltanto non avrei mai scritto nessun romanzo nemmeno quando qualcuno ancora li comprava e li leggeva, così non voglio spendere una parola in più per ripetere che l’opera di letteratura non è mai un saggio o una narrazione storica, di fonte documentale o fittizia che sia, ma un romanzo, un romanzo contemporaneo, che può, tanto per mettere soltanto alcuni dei paletti etici ed estetici, essere scritto non solo da uno scrittore ma da un uomo che al contempo sia un uomo libero, libero da barriere di rispetto e da autocensure che non siano quelle inerenti l’estetica del linguaggio e dell’economia dell’opera in sé e per sé. Ditemi a quante servitù è sottoposto un uomo... accademiche, politiche, giornalistiche, televisive, economiche, famigliari e familiste, tossicologiche, mafiose, religiose, di spicciola ipocrisia da sopravvivenza: servitù di sistema, infine, di un sistema per quel che è in un dato Paese, e sottolineo un uomo per stendere una pietosa carta ricalcante su una donna che scrive... e vi dirò quanto è altamente improbabile, a) che sia uno scrittore, b) che scriva un’opera di letteratura. Cioè il romanzo del suo tempo. E un’opera simile non verrà mai scritta da uno schiavo di terrazze, da un portaborse, da un paggio, da un pubblicista, da un creativo, da un cretino con sponsor chiamato a suo tempo intellettuale organico, da, infine, un passacarte.
Una volta si diceva a manovella, un decennio via l’altro, che il romanzo era morto, e chi formulava tale constatazione o preveggenza non avrebbe mai sospettato che la questione sarebbe stata scavalcata fino al punto di non porsi nemmeno più: il romanzo in quanto opera di letteratura (ripeto: non intenzionalmente a fini commerciali) è morto nella sua creazione perché ne è morta la ricezione. E, già che ci sono, non solo è morta la ricezione del romanzo non visivo, non televisivo, non sentimentale, non consolatorio, non qualunquista, non di propaganda di una qualche Fides, non commerciale, ma è morta la ricezione di qualsiasi prodotto non immediatamente e visivamente e fugacemente fruibile e, purtroppo, commentabile con un testo che diventa a sua volta prodotto da commentare, in un gioco di specchi ad alfabeto limitato in cui tutti appaiono al contempo produttori di riflessi romanzati e nessuno c’è, non una persona per come siamo abituati, antiquati come siamo, a considerarla tale, non uno scrittore dietro lo specchio di un testo che presuppone un lettore davanti (quindi non un non lettore) e, pertanto, nessun testo in assoluto riconducibile a una parvenza di letteratura secondo i classici canoni dati, rispettati o rimaneggiati, aggiornati che siano.
La prima volta che andai in televisione a promuovere un mio romanzo fu nel 1985 per Vita standard di un venditore provvisorio di collant e mi fu chiesto quanti erano secondo me in Italia i lettori che avrebbero potuto leggerlo, s’intende fino in fondo e comprendendolo. Risposi di getto, «Diecimila», e il presentatore restò basito, si aspettava che sparassi una risposta tipo «Un milione» o addirittura «Chiunque», in fondo ero lì per fare promozione a man bassa, non per scoraggiare; a metà anni Novanta ebbi modo di dichiarare che erano scesi a cinquemila e che ormai si trovava difficile persino Seminario sulla gioventù, intendendo dire che persino gente laureata in lettere cominciava a trovare difficile, anzi, ostico, al di là della personale attrazione o repulsione, un testo che avrebbe potuto e saputo leggere fino in fondo, almeno capendolo se non proprio sentendolo, chiunque avesse fatto le scuole medie negli anni Sessanta; oggi, oggi che più a nessuno salterebbe in mente di porre una domanda simile a uno scrittore ospite a un talk show, risponderei «Seicentosessantasei», tanto per gradire e perché la televisione vuole le sue risposte un po’ a effetto, ma anch’io penserei, «Venticinque», e non uno di più. Ognuno sta solo sul cuore delle app, piove che ti trafigge, non è mai sera ed è subito oblio: il che avrà più vantaggi che altro, basta farsene una ragione, anzi, crearsi una nuova ragione, inventarsela di bel nuovo. Ma non fa per me: sono sicuro di averne avuta una, cosa già non da poco per un uomo, ed è più che sufficiente. Per il tempo che mi resta, e fra questi umani dello schermo, se proprio proprio, meglio perderla del tutto.
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