domenica 14 settembre 2014

"Io che vengo dalla scuola pubblica"


ALAN BENNETT

"La Repubblica", 14 settembre 2014

Salire sul pulpito è un rischio quando si scrive per il teatro. Nessuno se lo aspetta da te e, se lo fai, ti viene rimproverato. Ai poeti è concesso, ma non ai commediografi che, se hanno delle opinioni nude, è meglio che le vestano delle decorose ambiguità dei loro personaggi o le nascondano nella selva, a volte poco fitta, della trama. Basta non parlare al pubblico.
Ho sempre trovato difficile rispettare questo divieto. John Gielgud, che recitò nella mia prima commedia, pensava che rivolgersi al pubblico fosse volgare. Poi lo convinsero a provare e da allora solo in rare occasioni ha parlato con altri. Lo capisco, e anche nelle mie pièce più realistiche ho escogitato e assaporato i momenti in cui un personaggio, inaspettatamente, si volta e si rivolge al pubblico e, in poche parole, predica.
Può darsi che sia perché da bambino frequentavo regolarmente la Chiesa di St Michael a Headingley e ascoltavo tantissimi sermoni. Andavo anche alle pomeridiane del sabato al Grand Theatre di Leeds, ma a volte i sermoni erano più teatrali delle commedie. Questo in particolare quando sul pulpito erano invitati i padri della Comunità della Resurrezione di Mirfield, dal fervore quasi revivalista, che ammaliavano il pubblico dei fedeli.
Non sorprende quindi che il primo monologo da cabaret cui pensai da ragazzo sia venuto fuori in forma di sermone.
Come tutte le parodie nasceva dall’affetto e dalla familiarità e dalle funzioni anglicane che avevo nelle ossa, e c’è una certa simmetria con il primo sermone che tenni su un vero palcoscenico una cinquantina di anni fa all’Arts Theatre nel varietà Beyond the Fringe. Il testo era “Mio fratello Esaù è peloso, ma io sono glabro”. A parte quel sermone non sono mai più salito su un pulpito e lo faccio di nuovo qui a Cambridge. Avevo visto Cambridge per la prima volta quando, diciassettenne, ero venuto giù da Leeds nel dicembre 1951 per sostenere l’esame di ingresso per la facoltà di storia, alloggiando per il fine settimana, come si faceva allora, nel college che era in cima alla lista delle mie preferenze, il Sidney Sussex. Il luogo e l’università mi lasciarono a bocca aperta. Leeds, dove ero nato e cresciuto, nel 1951 era ancora intatta come le altre grandi città del nord, ma benché non fossi ignaro dei suoi splendori architettonici, per quanto all’epoca non fossero in voga, era una città annerita dalla fuliggine, prettamente ottocentesca, e da ragazzo, come Hector nel mio Gli studenti di storia, ero affamato di antichità. Non ero mai stato in un posto in cui la bellezza sbocciava di continuo come Cambridge. Quel dicembre il freddo era eccezionale, il Cam era gelato e uno spesso strato di brina ricopriva ogni corte e cortile, conferendo alla città una bellezza irreale e celestiale. Ed era vuota, come lo erano allora i posti di provincia. Mi vedo diciassettenne a zonzo per i college, come si poteva fare allora, senza licenze, fermo nel Trinity Great Court sotto la luna senza riuscire a concepire di poter essere ammesso a studiare in quei luoghi stupendi. Al Trinity non fui ammesso, infatti. Il Sidney Sussex non era proprio il massimo per i miei gusti sotto il profilo architettonico, ma bisognava essere più intelligenti di me o più in alto nella scala sociale per avere la prima scelta. Però l’esame di ammissione si teneva alla Senate House, il cui interno, fosse stata a Leeds, sarebbe stato isolato dietro cordoni rossi, e andai ad ascoltare la preghiera della sera al King’s, stupefatto che si potesse semplicemente entrare e sedersi negli stalli del coro. Era l’avvento o, come si dice oggi, il conto alla rovescia prima di Natale e uno degli inni cantati era Vieni, vieni Emmanuel , che sembra un po’ una marcia funebre, ma che da allora mi è rimasto dentro. Al colloquio con i benevoli assistenti del Sidney mi resi conto per la prima volta di avere l’accento del nord.
Se gli assistenti erano cordiali, alcuni dei candidati lo erano di meno. Quel fine settimana per la prima volta mi trovai di fronte a una massa di alunni di scuola privata e rimasi esterrefatto. Erano rumorosi, disinvolti e sembrava che si conoscessero tutti, urlavano da un capo all’altro del tavolo per dimostrarlo ed erano anche scandalosamente ingordi. Saranno anche andati alla scuola privata ma erano degli zotici. Seduti ai lunghi tavoli del refettorio sotto i ritratti pacati dei grandi delle dinastie Tudor e Stuart, ordinati, timorosi e cortesi, noi ragazzi del liceo pubblico eravamo gli intrusi; quei maiali, così li consideravo, la parte proprietaria.
Di quella parte mi sarebbe stato concesso di diventare membro dato che, pur essendo io ben lungi dall’ ottenere l’agognata borsa di studio, il Sidney Sussex mi offrì un posto per studiare storia, dopo il servizio militare.
Anche questo porta a Cambridge e se vi state chiedendo se il mio, più che un sermone, sia una camminata sul sentiero della memoria rincuoratevi, perché è a questo punto che l’omelia incerta inizia a mettere il naso sopra l’orizzonte.
Dopo un corso di avviamento in fanteria mi mandarono a imparare il russo a Cambridge, un anno senza uniforme, a ritmi molto rilassati. L’atmosfera era inebriante, sotto un certo profilo molto più che all’università vera e propria, meta di molti dei miei colleghi dopo il servizio militare. Alcuni di loro erano di un’intelligenza sconcertante, alunni di scuola privata che parlando dei tempi del liceo spesso ricordavano un insegnante memorabile, del quale raccontavano aneddoti e citavano i detti – insegnanti che, ricordo di aver pensato con amarezza, avevano presumibilmente contribuito a far ottenere a gran parte di loro la borsa di studio per Oxford e Cambridge. Per quei ragazzi l’esame di ingresso, che a me aveva fatto racimolare un posto, era stato quasi una formalità. La scuola li aveva preparati all’ esame e ai colloqui successivi, a dare quasi per scontate le borse di studio dei due livelli che ne conseguivano. Erano Oxford e Cambridge in fin dei conti; loro avevano le carte in regola. Se lo consideravo ingiusto, non era allora per altruismo. Pensavo a me stesso, mi reputavo svantaggiato assieme ai ragazzi come me. Dovrei scusarmi per il fatto di coniugare questa mia storia costantemente al maschile ma la mia istruzione, la scuola, l’esercito e infine l’università erano tutte, all’ epoca, istituzioni maschili.
Come ho detto mi sentivo svantaggiato ma mi consolava un po’ il pensiero, credo in genere condiviso dagli educatori, che la situazione fosse inevitabilmente destinata a cambiare e che la percentuale degli iscritti a Oxford e Cambridge provenienti dalle scuole statali avrebbe gradualmente superato quella dei diplomati alle scuole private per arrivare a una rappresentanza adeguata e proporzionale. Fu solo col passare del tempo senza che avvenisse nulla di tutto ciò che la mia protesta inizialmente egoistica, addirittura un piagnisteo, si fece più agguerrita, estendendosi dall’ ammissione a Oxford e Cambridge all’ accesso all’ istruzione superiore in generale, mentre anno dopo anno la lotta per i posti all’ università si faceva più disperata. Per non parlare dei costi. Ben altri cervelli si sono confrontati e si confrontano con il problema e pretendere di avere in mano la soluzione sarebbe folle da parte mia. Ma so che del problema fa parte l’istruzione privata. La mia critica a quest’ultima è molto semplice. È ingiusta. Dire che nulla è giusto non è una risposta. I governi, anche quello attuale, esistono per rendere più giusta la realtà del Paese, ma nessun governo, di qualsiasi colore, ha osato toccare l’istruzione privata.
Sarebbe stato fattibile all’ epoca delle riforme di Butler nel 1944 ma c’era altro in pentola. Il governo laburista nel 1945 avrebbe potuto tentare, ma aveva troppo da fare in altri campi. Non si presentò altra occasione fino al 1997, quando la stragrande maggioranza dei laburisti avrebbe quantomeno acconsentito a un tentativo in quella direzione, peccato che il primo ministro avesse frequentato egli stesso una scuola privata, apparentemente con soddisfazione. Così anche quell’ occasione andò sprecata.
Non sono del tutto sicuro del motivo. Quando si solleva la questione si fa un gran parlare delle conseguenze negative a livello sociale, quasi si trattasse di una novella soppressione dei monasteri. Ma sarebbe così? Dopo tutto non suggerisco l’abolizione delle scuole private, ma una riforma graduale, che inizi dalla fusione delle scuole pubbliche e private a livello di sesta classe, ad esempio, dovrebbe essere fattibile e per nulla rivoluzionaria, se c’è la volontà. E questo, ovviamente, è il problema. In parte questa mancanza di volontà è imputabile all’ ansia generalizzata dei genitori espressa in maniera che oggi suona quasi comica, nei versi di Stephen Spender del 1930: «I miei genitori mi tenevano lontano dai bambini villani che lanciavano parole come pietre e vestivano di stracci».
In breve, ancora una questione di classe. Meno comprensibile è la riluttanza a condividere in maniera più ampia (e quindi a diluire) gli indubbi vantaggi dell’istruzione privata: classi meno numerose, strutture migliori e, a quanto pare, tuttora maggiori opportunità di accedere all’ università. Al di là di questo, però, sono meno sicuro dei vantaggi sociali nel lungo periodo, di cui un tempo avrebbe fatto parte l’accento, oggi difficilmente. Però, senza nulla togliere alle molte scuole statali eccellenti, un alunno di capacità medie avrà verosimilmente risultati migliori in una buona scuola privata. Altrimenti perché ce lo manderebbero? Se si arrivasse a una riforma credo che i meno preoccupati all’ idea della commistione sarebbero proprio i ragazzi e le ragazze.
Non mi sorprenderebbe se doveste ignorare queste mie opinioni schiette considerandole le farneticazioni di un vecchio. Ho ormai ottanta anni, un’età in cui ti si può ascoltare senza per forza darti retta. Non mi sono mai occupato molto di politica fino agli anni Ottanta, quando divenne arduo astenersene. Senza essere stato particolarmente di sinistra sono lieto di non aver mai fatto quel triste safari da sinistra a destra che in genere è conseguenza dell’età, un viaggio che sembra attirare in particolare gli scrittori, Amis, Osborne, Larkin, Iris Murdoch, tutti vanno a finire all’ estremità burbera e stereotipata del ventaglio.
Se per me non è stato così è in parte dovuto alle circostanze: dagli anni Ottanta in poi è successo così poco in Inghilterra di apprezzabile e degno di appoggio, a mio giudizio. Per diventare radicale è bastato star fermo. Ma anche queste sembrano le parole di un vecchio. Eppure non mi dispiace ed è sempre bello vedere in televisione quei programmi sugli attivisti di un tempo ancora battaglieri, anziane signore che raccontano le loro lotte per i diritti delle donne o per il controllo delle nascite, veterane delle proteste antinucleari, briose, allegre e radicali come sono sempre state, ancora volitive dopo tutti questi anni. Questa per me è saggezza, la disillusione no. Un altro motivo per cui manca la volontà e si è riluttanti alla prospettiva di una commistione – riluttanza che, va detto, non protegge l’ambito statale in cui non passa settimana che non venga annunciata qualche nuova iniziativa – è che l’istruzione privata è apparentemente intoccabile. Questo credo dipenda dal fatto che ormai la divisione tra istruzione pubblica e privata viene data per scontata. Il che non vuol dire che sia giusto, ma solo che non c’è nulla da poter o dover fare a riguardo. Ma se si crede che il Paese sia ancora generoso, magnanimo, e soprattutto giusto, è difficile non pensare che tutti sappiamo che subordinare l’accesso all’ istruzione non alle capacità dell’alunno bensì allo status sociale dei suoi genitori è sbagliato ed è uno spreco. L’istruzione privata è ingiusta. Chi la fornisce lo sa. Chi la paga lo sa. Chi deve sacrificarsi per acquistarla lo sa. E chi la riceve lo sa, o dovrebbe saperlo. Se non se ne rende conto quando ha completato il percorso vuol dire che l’istruzione è andata sprecata. Suggerirei quindi – timidamente, perché non ho la competenza sufficiente a seguire i dibattiti etici connessi – che se è ingiusta forse allora non è neanche cristiana. Non so bene in che misura dobbiamo al cristianesimo le nostre idee di giustizia. Le anime dopo tutto sono uguali agli occhi del Signore e meritano quindi pari opportunità, come si dice oggi. Certo non è così nel campo dell’istruzione e mai lo è stato, ma non significa che si debba rinunciare a provare. Non è ora di fare un tentativo serio?
A differenza degli ideologi di oggi che definirei ottusi nella loro determinazione, non ho paura dello Stato. Sono stato istruito a spese dello Stato, sia a scuola che all’ università. Lo Stato ha salvato la vita a mio padre e una volta anche a me. Questo sarebbe lo Stato assistenziale, il cosiddetto nanny state, appellativo beffardo che non tiene conto della mia esperienza. Senza lo Stato non sarei qui oggi. Non ho tempo per l’ideologia mascherata da pragmatismo che intende privare lo Stato delle sue funzioni filantropiche, trasformandole in occasioni di profitto. E perché scrollarsi di dosso lo Stato per poi farsi mettere sotto dalle imprese che sono state autorizzate, o meglio incoraggiate a prenderne il posto? Mi preoccupa la gestione secondo criteri aziendali delle carceri e dei servizi sanitari. Recuperare i detenuti e alleviare le sofferenze sono profitti umani che nulla hanno a che fare con i bilanci. E oggigiorno nessuna istituzione è immune. Nella mia ultima commedia la Chiesa d’Inghilterra ha in programma di vendere la cattedrale di Winchester. «Perché no?» dice un personaggio. «La scuola è privata, perché non dovrebbe esserlo anche la cattedrale?». È una battuta, ma non più inverosimile.
Con l’ideologia mascherata da pragmatismo il profitto è ormai l’unico metro con cui misurare tutte le nostre istituzioni, una politica che non deriva dall’ esperienza, ma da congetture – false – sulla natura umana, che vedono nell’ avidità e nell’ interesse gli unici attributi affidabili. Nella ricerca del profitto lo Stato, con i suoi annessi e connessi, viene venduto sotto banco in barba a noi che siamo i suoi legittimi proprietari con una foga e uno zelo che ricordano l’iconoclastia di un tempo.
Il che mi porta a concludere.
Un passatempo che avevo da bambino e che, grazie al mio partner, ho rispolverato nella mezza età, era visitare le vecchie chiese, «sbronzarsi di rovine», come diceva sprezzante Larkin, anche se forse noi vantiamo una competenza maggiore di quanta egli ipocritamente se ne attribuisse. Io conosco per esempio la denominazione specifica delle balconate che sostenevano i grandi crocifissi anche se, come Larkin, non sempre sono in grado di datare un tetto. Il fascino di gran parte delle chiese medioevali consiste nei lasciti della storia, si impara a deliziarsi dei rimasugli della storia: qualche pannello istoriato posto all’ estremità dei banchi nel XV secolo, un monumento sepolcrale in alabastro oppure, in relazione alle vetrate, solo avanzi di bigottismo, l’ideologia si indeboliva contro le decorazioni fuori portata – il martello troppo pensante, la scala troppo corta – così che sopravvivono solo i frammenti, un gruppo di ornamenti gotici e torri forse, il balenare di una città d’oro sotto lo sguardo malevolo di un diavolo.
Nei momenti di maggior sconforto questi frammenti di storia mi paiono emblematici di quanto è accaduto in Inghilterra nel passato, ovviamente, ma sono anche memento di ciò che sotto altri aspetti continua ad accadere nel presente, ora che il tessuto dello Stato e dello Stato sociale in particolare viene smantellato come un tempo lo fu, in maniera più rudimentale, il tessuto delle chiese, venduto, affittato; una nuova Soppressione ove il profitto ha la precedenza su ogni altra considerazione e gli autori dello scempio di oggi sono chiusi nella loro ideologia e convinti di essere nel giusto, come i selvaggi devoti che quattro e cinquecento anni fa infransero dall’ esterno le vetrate e cancellarono i volti dei santi come passaporto per il paradiso.
Termino con le ultime righe della mia prima commedia, Quarant’anni . È ambientata in una scuola il cui preside è alla vigilia del pensionamento ed è quello che oggi si definisce una pièce per l’Inghilterra. Termina con i ragazzi e il corpo insegnante che intonano l’inno All Creatures That on Earth Do Dwell, preceduto da questo annuncio immobiliare riferito all’Inghilterra.
«Affittasi. Area di valore al crocevia del mondo. Offerta attualmente riservata a società. Porzioni periferiche della proprietà già dotate di inquilini residenti. Di un certo interesse storico e d’epoca. Necessita di alcune modifiche e migliorie».

Traduzione di Emilia Benghi.
Questo testo è apparso per la prima volta su London Review of Books

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