Il bisogno di credere nell'assoluto ci spinge a sposare le idee di un capo carismatico invece di puntare sul nostro sole interiore
Remo Bodei
"Il Sole 24 Ore - Domenica", 7 settembre 2014
L'idea di «splendore» è parte della costellazione della «gloria». Ne ricordo preliminarmente quattro aspetti, senza però soffermarmi su di essi, come farò invece sul quinto, meno evidente, ma assai più pregnante e carico di conseguenze.
In primo luogo, lo splendore è collegato alla radice del nome e del concetto di carisma, termine di origine indoiraniana: Xuarenah, da "sole" (hvar-), che indica l'irradiazione di potere e prestigio che emana da una persona in forma di fluido igneo e vitale. Il Sole, diffuso simbolo del potere, illumina e guida gli uomini nelle tenebre dell'esistenza sociale: lo si può ammirare, ma induce presto a chinare il capo a causa del suo accecante fulgore. La moderna sociologia, a partire da Max Weber e come è noto, ha fatto del carisma una categoria politica chiave per spiegare come le persone seguano spontaneamente un individuo, cui obbediscono, che appare dotato di qualità eccezionali e di fascino.
In secondo luogo, sia l'aureola (diminutivo da aureus), disco d'oro che nell'iconologia cristiana circonda la testa della divinità e dei santi, sia il nimbo (alone o nuvola luminosa che li avvolge) hanno a che fare con lo splendore che ne manifesta la sacrale autorità. Aureola e nimbo costituiscono, insieme, quella che tecnicamente si chiama, appunto, «gloria».
In terzo luogo, molte divinità sono legate al culto della luce, dallo Zoroastro persiano, all'Amon-Ra o Aton egizi, allo Zeus greco (genitivo Dios, luce diurna, come nel latino dies), per non parlare dell'identificazione di Cristo come Sol invictus.
In quarto e ultimo luogo, una lunga tradizione, che risale almeno a Plotino, associa il bello allo splendore, alla luminosità: dall'aglaia greca allo splendor o claritas del latino antico e medioevale. Ancora nel tedesco moderno «bello» si dice schön (parola che condivide il medesimo etimo di schein, brillare, splendere, apparire circonfuso di luce).
Piuttosto che approfondire gli argomenti appena accennati, preferisco riflettere su un problema che, malgrado l'apparente astrattezza, coinvolge intimamente ognuno di noi sul piano personale e politico. Mi riferisco alla natura del buono o del bene (to agathon), presentata da Platone nella Repubblica come premessa al celebre mito della caverna. Si tratta di una delle teorie più enigmatiche e controverse, anche perché siamo fuorviati dall'ambiguità e dall'indeterminatezza di un ormai termine usurato. Agathon indica però la vita buona, compiuta, piena, desiderabile e felice. Riuscire a comprendere questa idea, ciò che vi è di più luminoso (phanotaton), e a metterla in pratica rappresenta la mèta suprema della vita umana, la «massima conoscenza». Il suo conseguimento è però concesso a pochi, giacché il bene si colloca «al limite estremo dell'intelligibile ed è difficile a vedersi».
Alla richiesta di spiegare cosa sia il buono, Socrate rifiuta di addentrarsi in una definizione: non si sente pronto e ha paura di esporsi al ridicolo.
Come accettabile compromesso, suggerisce di illustrarlo attraverso una metafora. Paragona così il buono al sole, suo analogon nel mondo visibile, per cui, sebbene esistano le cose fisiche, coglibili dai sensi, ed esistano i concetti (noemata), coglibili dall'intelletto (nous), se manca la luce naturale o la luce dell'anima non si può vedere o pensare nulla. Dunque, la luce è un tertium tra la vista e il visibile e tra il pensiero e i pensabili. Inoltre, al pari del sole naturale che, emanando luce e calore, permette la vita vegetale e animale, il bene, sole spirituale, è causa del generarsi e rigenerarsi delle idee.
Il mito della caverna, il più celebre nella storia della filosofia, ci aiuta a comprendere meglio quanto appena detto. Vi si immagina, si sa, una caverna in cui degli uomini vedono sulla parete opposta all'ingresso delle ombre che scambiano per cose reali. Tali ombre rappresentano le nostre conoscenze superficiali: le opinioni non sufficientemente esaminate, quelle, appunto, di cui normalmente ci contentiamo. Quando però qualcuno è indotto a uscire dalla caverna e a uscire all'aria aperta, viene dapprima accecato dalla luce del sole e non vede assolutamente nulla. Gradualmente, però, si abitua alla luce e, dopo aver rivolto lo sguardo verso basso lo solleva sempre di più in alto. Solo alla fine, giunto alla fonte della luce, si accorge di non poter fissare a lungo il sole, pena la cecità.
Anche la conoscenza del bene è raggiungibile per gradi, dopo lunghi e faticosi esercizi, poiché il suo sole acceca e scotta quanti pretendano di vederlo e di sottoporvisi senza preparazione: «Chi non è davvero filosofo, e ha solo una patina superficiale di opinioni filosofiche, fa come chi ha preso troppo sole e si è scottato».
Perché – per parafrasare un'espressione giovannea – gli uomini preferiscono le tenebre? Perché ambiscono a surrogati del bene (piacere, ricchezza, potere, gloria, onore) invece di abbandonarsi a una felicità più alta? È vero che anche inseguendo questi simulacri avvertiamo talvolta la nostalgia di un bene più pieno. Sentiamo che qualcosa ci manca, che ogni soddisfazione è insatura e momentanea, che persino le nostre fantasie, i nostri desideri i nostri sogni sono calamitati dalla premonizione di un bene infinito, che si manifesta come sordo bisogno di trovare un centro di gravità intellettuale ed emotivo, che ci sottragga all'esistenza dolorosa o insipida.
Il Cristianesimo, nell'assorbire la filosofia platonica e neoplatonica, ha perciò identificato Dio con il Sole e con il Bene, sbarrandone però la conoscenza alla mente umana. La gloria di Dio è splendore intollerabile ai nostri occhi: oltre l'intelletto, il nous si pone ora la fede, oltre l'ottenimento del bene la speranza di conseguirlo, oltre la conoscenza umana l'insondabile mistero. E se, anche al di fuori della dimensione religiosa, l'idea di un bene assoluto risultasse al di fuori della portata di tutti gli uomini? Se le forme di vita buona sono molteplici e dipendono da scelte personali?
Si può qui toccare lo strato più profondo delle nostre concezioni, dove la verità si scontra con l'opinione, la rousseauiana «volontà generale» con la «volontà di tutti», la ragione con la demagogia. Qui si può constatare come l'assolutezza del possesso del bene da parte di qualcuno o di qualche comunità, qualora diventi strumento della religione o della politica, si trasformi in dogma inconfutabile e in violenza. I monoteismi e le teocrazie hanno a lungo promosso (e in alcuni casi continuino a farlo), l'intolleranza e la guerra.
Come mai tali concezioni hanno trovato e trovano tanto credito? Non sarà forse perché il bisogno di credere all'assoluto attrae gli animi e li fa ruotare attorno al sole carismatico di un capo che spaccia le sue opinioni per verità inconfutabili? E non sta qui uno degli elementi di debolezza nascosti delle democrazie, che si manifesta nei periodi di drammatiche crisi, quando molti, stanchi della pluralità irriducibili delle opinioni, chiedono certezze che non giungono dal loro sole interiore, ma dalla luce riflessa di un capo carismatico?
D'altra parte il dilemma tra l'assoluto e il relativo sembra privo di praticabili vie d'uscita che non siano di compromesso: se il bene fosse davvero quello che pare a ciascuno, avremmo l'anarchia più sfrenata, ma se, al contrario, fosse dichiarato monopolio di qualcuno e si fosse indotti o costretti a obbedire a chi ne proclama il possesso, si avrebbe la sopraffazione o la servitù volontaria. Bisogna perciò trovare una mediazione tra l'oscurità delle opinioni degli abitanti della caverna e la solare luminosità di chi cerca il vero. I modelli dogmatici o totalitari predicano o impongono dall'alto ideologie contrabbandate come verità, ma non possono giustificare la libertà e le opinioni dei cittadini.
A loro volta, i modelli liberali o democratici sono condannati a moderare le pretese e di razionalità e di vita buona e ad accettare l'equivalenza delle opinioni e delle scelte dei cittadini. Sostengono il perseguimento di ciò che sembra bene a individui o gruppi, ma non sanno giustificare a sufficienza le ragioni del bene comune.
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