sabato 6 settembre 2014

La nostra Africa nascosta sotto i cliché


Esotismi e immagini romanzesche 
coprono una realtà economica in continua espansione

Remo Bodei

"La Stampa", 4 settembre 2014

Nel giudicare altri popoli e culture i pregiudizi e i luoghi comuni sono frequenti e quasi inevitabili. Eppure, quelli nel tempo che si sono accumulati sull’Africa, specie sulla sua zona subsahariana, superano di gran lunga quelli che pesano su altre parti del mondo.
Sappiamo generalmente assai poco, a livello di senso comune, di un continente così disomogeneo, esteso su una superficie di trenta milioni di chilometri quadrati, composto da cinquantaquattro Stati, in cui si parlano quasi duemila tra lingue e dialetti, ora abitato da oltre un miliardo di persone, ma che, per effetto del più alto tasso di crescita demografica, raggiungerà entro il 2050 un miliardo e ottocento milioni, un quarto dell’intera popolazione del pianeta. Sebbene l’Africa sia il continente in cui poco meno della metà della popolazione è colpita dalla povertà, grazie all’aumento del prezzo delle materie prime e al ritorno degli investimenti stranieri, conta oggi nella sua parte subsahariana sei dei dieci Paesi che, nel mondo e nel primo decennio di questo secolo, hanno raggiunto i maggiori tassi di crescita.
Nel nostro immaginario occidentale l’Africa possiede sostanzialmente due volti, uno positivo e uno negativo, dove la realtà si intreccia con la fantasia e i racconti degli esploratori, dei colonizzatori, dei missionari e dei mercanti del passato, che hanno forgiato le nostre idee, si scontrano con i dati economici, politici e sociali del presente. Nel primo caso, essa è caratterizzata, fin dall’antichità, dalla presenza dell’oro, dalla varietà e dalla maestosa grandezza degli animali, dai deserti e dalle foreste ostili all’uomo e dall’essere stata per millenni un luogo misterioso, in gran parte inesplorato dagli europei (ha quindi suscitato curiosità, sogni e progetti avventurosi di esplorazione e di ricchezza). Nel secondo caso, essa evoca fame, miseria, siccità, clima insalubre, malattie tropicali, corruzione dei governi, conflitti etnici. Appare spesso, in sostanza, come un continente senza speranza di riscatto.
Fino a non molto tempo fa il ricordo di antichi episodi di barbarie si sommava a stereotipi razzisti di vario tipo, da quelli truci che mostravano il negro come l’anello di congiunzione tra la scimmia e l’uomo a quelli edulcorati in forma di vignette con esploratori bianchi in un pentolone, pronti per essere divorati dai cannibali, indigeni in costume tribale ma con la sveglia al collo oppure di canzonette degli Anni Cinquanta del secolo scorso che oscillavano tra l’irrisione di «Quando io vedere buccia di banana / me venire in mente Africa lontana», le allusioni oscene di «Il tucul è una capanna in cui Bongo fa la nanna» e la condiscendenza paternalistica di Angelitos negros, le cui parole suonavano così in italiano: «Non sono che un povero negro, ma nel Signore io credo / e so che Egli tiene d’accanto tanti negri che hanno pianto» […].
Siamo abituati poi a immaginare l’Africa come soggetta da secoli agli Europei, ma in realtà – si pensi all’impero medioevale del Mali, all’Etiopia o alla Liberia, una piccola nazione fondata nel 1821, voluta dagli Stati Uniti e composta da schiavi liberati – gli Africani, a prescindere da alcune enclaves nelle coste, rimasero sostanzialmente indipendenti dagli Europei fino ai primi decenni dell’Ottocento. Solo alla fine del Settecento cominciò, infatti, l’esplorazione e la penetrazione all’interno del continente. Si può anzi stabilire una data precisa: il 1795, quando lo scozzese Mungo Park raggiunge le foci del Niger. Da allora inizierà la fase dell’esplorazione sistematica e della colonizzazione, con la conquista francese dell’Algeria nel 1830 e la successiva accelerata spartizione del continente con il Congresso di Berlino del 1884-1885, voluto da Bismarck anche come effetto della crisi economica mondiale del 1873, che aveva spinto alla ricerca di nuovi mercati e di materie prime. Tale congresso stabilisce le zone di appartenenza o di influenza della diverse nazioni europee e dà luogo fino al 1914 a una corsa in vista della sistematica occupazione dei territori («scramble for Africa»). La parte del leone, è il caso di dire, la fanno la Francia e l’Inghilterra, ma zone consistenti spettano al Portogallo, al Belgio, alla Germania e all’Italia.
In rapporto alla millenaria storia dell’Africa, il dominio coloniale è relativamente breve: dura sostanzialmente una ottantina d’anni ed è seguito, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, da ondate successive di processi di decolonizzazione […].
La fame e la povertà sono dovute al sovrapporsi di fattori naturali e socio-politici. Il terreno è in gran parte poco fertile (non solo perché è povero nelle savane e negli altipiani, ma anche perché il deserto avanza attualmente a velocità impressionante) e il dominio coloniale ha sostituito le tradizionali colture miranti alla sussistenza con quelle richieste dai mercati di esportazione. Inoltre, le disparità tra nazione e nazione (si va, secondo le stime, dai 26.000 ai 38.000 dollari pro capite della Guinea Equatoriale ai 396 della Repubblica Democratica del Congo) e tra ricchi e poveri sono enormi, anche perché le risorse locali e gli aiuti internazionali vengono intercettati sul piano politico. Non è, infatti, l’economia a dominare, ma la politica, rappresentata da governanti che si impossessano personalmente delle risorse e le distribuiscono alle loro clientele, spesso nelle regioni della loro etnia di provenienza. Se la corruzione è diffusa, va anche aggiunto che ben otto Stati africani (compresi la Namibia, il Ghana e il Rwanda) sono considerati dall’Indice di percezione della corruzione di «Transparence International» meno corrotti dell’Italia.

Nessun commento:

Posta un commento