GIOVANNI DE LUNA
"Il Manifesto", 17 febbraio 2013
Nel 1894, il capitano francese di origini ebraiche, Alfred Dreyfus, fu condannato per alto tradimento alla deportazione a vita. Accusato di essere una spia al soldo dei tedeschi, Dreyfus era innocente. Contro di lui fu ordita una congiura avallata dal ministro della guerra e dalle alte gerarchie militari, sostenuta da una virulenta campagna di stampa. Di fronte a un'opinione pubblica largamente colpevolista, un pugno di intellettuali si impegnò strenuamente per dimostrare la falsità delle accuse. Nacque così il «caso Dreyfus», i cui lineamenti essenziali sono stati ora riproposti in un libro di Agnese Silvestri (Il caso Dreyfus e la nascita dell'intellettuale moderno, Franco Angeli, 2012), che offre una buona occasione per riflettere sull'affaire anche alla luce del dibattito politico-intellettuale nell' Italia di oggi.
I francesi chiamano failles, fratture, quelle fasi della loro storia in cui ci si divide in due diverse "idee" della Francia. È stato così per lo scontro tra la Francia di Vichy e di Pétain e quella della Resistenza e di De Gaulle, è stato così per la guerra d'Algeria ed è stato così, soprattutto, per il caso Dreyfus, quando il dibattito tra dreyfusardi e antidreyfusardi investì proprio le questioni ultime dei valori repubblicani e della cittadinanza.
Particolarmente significativo fu il modo in cui gli intellettuali schierati con Dreyfus interpretarono lo scontro tra politica e cultura. Fu la politica, sensibile agli umori di una Francia maggioritaria e fortemente antisemita, a volere infatti la condanna dell'ebreo Dreyfus e a proporre un'idea di cittadinanza fondata sulla "razza"; e fu la cultura a battersi per una Francia erede dei diritti e delle tradizioni repubblicane scaturite dalla grande Rivoluzione. «Cercate di capire che una sola pagina scritta da un grande scrittore è più importante per l'umanità di un intero anno della vostra agitazione da formicaio. Voi fate la storia, è vero, ma noi la facciamo con voi e a un livello superiore perché è tramite noi che essa rimane», scrisse allora Emile Zola. In questa orgogliosa rivendicazione del ruolo degli intellettuali nella società, Zola si spinse più avanti di tutti e il suo j'accuse (una serrata requisitoria contro la macchinazione del potere che aveva colpito Dreyfus) fu un urlo quasi eccessivo nella sua foga, animato da un'indignazione che lo rese difficile da gestire perfino da parte degli intellettuali del suo stesso schieramento.
Nella polemica si fronteggiarono infatti anche due diversi stili di comunicazione; a una "rappresentazione" della realtà dai toni accesi e affollata da stereotipi a sfondo razziale degli antidreyfusardi, gli altri opposero un discorso il più possibile ancorato ai fatti, alla fredda disanima delle carte processuali che evidenziavano l'impostura, a una logica razionale che cercava di sottrarsi alla presa emotiva del vittimismo, «il dreyfusista lacrimevole, che non sapeva fare altro che compatire la vittima, mi infastidiva» scrisse allora Jules Benda.
Ma l'aspetto che colpisce di più l'osservatore italiano è che, pure nel calore dello scontro, i dreyfusardi non si sentivano estremisti, contestatori dell'ordine costituito, ma anzi i custodi dei valori autentici dell'identità francese, patriottismo compreso. Dreyfus stesso, al momento della degradazione seguita alla condanna, gridò più volte «Vive la France!».
In questo senso si può dire che l'Italia non abbia mai avuto un caso Dreyfus. A scontrarsi, nel nostro passato novecentesco, sono sempre stati modelli di identità nazionale irriducibilmente contrapposti; è stato così quando il fascismo costrinse i suoi oppositori a considerarsi un'"altra" Italia o quando, nella lotta al comunismo, si delinearono progetti di Stato e di società assolutamente inconciliabili.
Quanto all'Italia di oggi, anche da noi le ragioni della cultura sembrano contrapporsi frontalmente a quelle della politica. In questi venti anni di egemonia berlusconiana, nella loro maggioranza gli intellettuali italiani si sono impegnati nel contrastare la rappresentazione della realtà elaborata dal potere politico; a una "narrazione" dai toni favolistici e compiaciuti si è opposto un discorso il più possibile ancorato ai fatti, soprattutto quando la crisi economica ha messo a nudo l'illusorietà dei meccanismi mitologici su cui si fondava la macchina propagandistica della politica. Tutto questo ha molto a che fare con lo scontro tra dreyfusardi e antidreyfusardi, tranne che per un elemento non secondario: non c'è Zola. E non ci sono neanche Sciascia o Pasolini, con la loro capacità di rompere gli schemi, di rimescolare concetti e schieramenti, di proporsi come figure coraggiosamente isolate anche nei confronti dei loro colleghi e amici.
I dreyfusardi bastarono a se stessi e costrinsero la politica a capitolare. Gli intellettuali italiani, invece, non sono riusciti a mobilitare direttamente l'opinione pubblica e quando hanno cercato di darsi una veste politica (penso, ad esempio, all'esperienza dei "girotondi"), le loro istanze si sono sempre afflosciate su se stesse. Refrattari ai richiami dell'antipolitica e del populismo, non sono stati però in grado di avviare quelle grandi "campagne" di opinione che costituiscono l'humus della cittadinanza democratica, mostrando una complessiva riluttanza a riproporre gli "eccessi" di Zola, il suo coraggio dell'anticonformismo. È come se il sentirsi tutti dalla stessa parte, tutti impegnati nel contrastare il berlusconismo, abbia provocato una loro chiusura, un'interpretazione del proprio ruolo che alla fine ne ha impedito il proporsi come una realtà autonoma, alternativa alla politica.
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