Con il suo atto il “dictator” romano ha creato il paradigma del disinteresse
e dell’amore per la patria
Un eroe universale, tanto che in America gli hanno dedicato una città
Maurizio Bettini
"La Repubblica", 14 febbraio 2013
Agli inizi del VI secolo a. C. Atene, preda di gravi tumulti, decise di affidarsi a un solo uomo: Solone. Egli fu nominato arconte, arbitro e legislatore, una posizione che gli permise di dare alla città leggi destinate a durare nei secoli. Ma non tutti i contemporanei le apprezzarono. Non passò giorno infatti senza che vi fossero rimostranze, tanto che Solone decise di rinunziare alla carica. Dichiarò che voleva fare un viaggio e chiese alla città un congedo di dieci anni. Immaginava che nel frattempo gli Ateniesi si sarebbero abituati alle sue leggi — non fu così, via lui prese il potere Pisistrato e ad Atene fu instaurata la tirannide. Ma non è questo che interessa, è piuttosto il modo in cui Solone lasciò il potere. Egli credeva fortemente nell’uguaglianza, per questo se ne andò come sarebbe potuto andarsene chiunque altro: imbarcandosi su una nave, senza né cerimonie né dichiarazioni ufficiali.
Ed eccoci a Cincinnato. Tutti ricordano la scena dei legati del Senato che si recano da lui per offrirgli la carica di dittatore. Lo trovano che sta arando il proprio campo, e prima di dar loro ascolto egli chiede alla moglie di portargli la toga. La situazione è drammatica, Equi e Sabini minacciano la città e c’è bisogno di un dictator.
Cincinnato lascia l’aratro, assume la dittatura, che gli conferisce un potere praticamente assoluto, e porta a termine la propria missione. Dopo di che, passati appena sedici giorni, e nonostante fosse stato nominato dittatore per sei mesi, egli abbandona i suoi poteri e torna ad arare. Questo gesto lo trasformerà in un paradigma di disinteresse e amore per la patria — tanto che gli americani, dopo la Rivoluzione, decideranno di dedicargli perfino una città, Cincinnati Ohio. Ed ecco il modo in cui Livio descrive l’abbandono del potere: dictatura… se abdicauit, letteralmente Cincinnato «si escluse dalla dittatura». In realtà questa espressione, se abdicare, costituisce la formula canonica usata in latino allorché un magistrato rinunzia alla propria carica. Perché dunque non l’ha usata anche Benedetto XVI? Al contrario si è contentato di un semplice ministerio… renuntiare, dichiarando cioè di “rinunciare” al proprio ministero. Naturalmente non si tratta di «dare le dimissioni», come qualcuno ha frettolosamente tradotto, trasformando così il papa in un amministratore delegato che non ha soddisfatto il Cda. Di certo però l’altra espressione, se abdicare, sarebbe stata almeno più classica. Dato che il latino della dichiarazione non è impeccabile (il cardinale Antonio Bacci, per anni massimo latinista del Vaticano, avrebbe almeno controllato le concordanze), potremmo immaginare che si tratti di un italianismo, un calco del nostro «rinunciare all’incarico».
Però potrebbe trattarsi anche di una scelta di modestia, dato che il verbo abdicare, ancora per un uditorio italiano, avrebbe evocato connotazioni (forse troppo) regali. Pur se la formula usata da Edoardo VIII di Inghilterra, quando abdicò in favore del fratello nel 1936, fu proprio «to renounce the throne», come correttamente si dice in inglese. Dunque per un uditorio anglofono, ammesso che vi siano ancora inglesi disposti ad ascoltare dichiarazioni in latino, quel renuntio del papa suona inevitabilmente solenne. E se invece pensassimo a tutte le volte in cui il verbo renuntio, specie nella latinità cristiana, viene usato per descrivere la “rinunzia” alle cose del mondo, che distolgono da pensieri più alti? Le recenti vicende in cui il soglio pontificio si è trovato coinvolto, potrebbero in effetti suggerirlo.
Il significato psicoanalitico dell’abbandono
Quando Narciso sa dire addio
Massimo Recalcati
La vita umana necessita di maschere per esistere. È un fatto: ciascuno di noi ne indossa una o più d’una quando si trova impegnato nelle funzioni e nei ruoli sociali che lo riguardano. Non a caso l’interrogativo: «ma chi credo di essere?» spesso attraversa il dubbio della coscienza che muove verso il gesto della dimissione da un incarico. Per questo i soggetti che credono senza incertezze al proprio Io, gli “Egoarchi” come li avrebbe definiti Giuseppe D’Avanzo, sono solitamente soggetti immuni dal rischio di dimissioni perché privi di quella quota necessaria di distanza da se stessi che rende possibile l’autocritica e il riconoscimento dei propri errori. Una leadership consapevole si misura dal modo in cui sa lavorare per preparare la sua dissoluzione rendendo possibile la sua permutazione e la sua trasmissione simbolica. Al contrario un eccessivo attaccamento al proprio Io rende impossibile l’esercizio di una leadership democratica perché resiste al principio della delega della responsabilità. Perché vi sia il gesto autentico delle dimissioni vi deve essere esperienza tormentata del dubbio e della propria vulnerabilità.
Gli incarichi, i ruoli professionali, le funzioni sociali, le investiture pubbliche, insomma tutto ciò che offre una identità collettivamente riconoscibile alla vita umana, ricoprono il carattere finito, mortale, leso dell’esistenza umana. Il gesto delle dimissioni è sempre ricco di echi emotivi perché implica la caduta della funzione stabilizzatrice e rassicurante di queste maschere che agiscono come dei veri e propri abiti identificatori. Si tratta di una spogliazione traumatica che riporta la nostra vita alla sua condizione più nuda. È l’ora della verità; l’evento che ci ricorda che il nostro essere è irriducibile alla maschera sociale che lo riveste. Per questa ragione nel soggetto dimissionario possiamo rintracciare sempre una quota depressiva legata alla perdita dell’identità narcisistica che l’identificazione alla maschera pubblica gli garantiva. Ma può valere anche il contrario: dare le dimissioni può significare per chi compie questo atto un effetto salutare di liberazione dai lacci della maschera. All’uomo — che è un essere in continuo divenire — l’abito rigido dell’identificazione appare sempre come un abito troppo stretto; lasciarlo cadere può allora allargare la vita, può essere una perdita feconda che rende possibile un affacciarsi rinnovato sul mondo.
Per la psicoanalisi la malattia e la sofferenza mentale sono legate ad un eccesso di identificazione rigida al proprio Io e al suo Ideale di padronanza. Il gesto della dimissione è un test di salute mentale perché implica la capacità del riconoscimento del proprio limite, cioè della propria castrazione. Non a caso è proprio la Legge simbolica della castrazione a presiedere l’intero percorso evolutivo della vita, il quale esige continue dimissioni simboliche: il bambino deve dimettersi dal suo ruolo per entrare nella turbolenze attive dell’adolescenza; l’adolescente deve dimettersi per assumersi la responsabilità della vita adulta e, a sua volta, l’adulto deve affrancarsi dal proprio Io per accettare la vecchiaia come transizione finale verso la morte. E non è forse proprio questo ultimo passaggio della vita a rivelare che l’attaccamento ad una identità rigida non può essere il destino dell’uomo, ma il tentativo, tragico o farsesco, di rivestire artificialmente la sua finitezza mortale? Non è forse questo che s’incontra ogni volta che si dà gesto autentico, non solo tattico, di dimissioni? Non è per questa ragione che Nietzsche pensava all’uomo come ad un “ponte ”, ad un “tramonto”, ad un essere destinato a superare sempre se stesso, ad un “oltreuomo”?
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