Melania Mazzucco
"La Repubblica", 10 gennaio 2013
Raffaello Sanzio
“Ritratto di papa Leone X e dei cardinali Giulio De’ Medici e Luigi De’ Rossi”, 1518 Firenze, Galleria degli Uffizi
Un ritratto dice che la persona raffigurata è esistita. Che era potente, ricca, talvolta bella. Un ritratto può incutere timore e reverenza, oppure sedurre. È potere, vanità, illusione di vivere per sempre. I ritratti dei sovrani e dei papi, eseguiti dai più grandi pittori, sono tutti sopravvissuti. Io preferisco i ritratti degli anonimi – persone comuni di cui si sono persi nome e memoria, e che però sono vive per noi, perché ha saputo salvarle il pennello di un artista. Come Petrus Christus, Lotto, o Holbein. La mia eccezione è questo ritratto di Raffaello. Divino genio, dio mortale su cui tutto è stato scritto, che oggi si ammira con una rispettosa indifferenza. Non è epoca, la nostra, che possa amare davvero la perfezione, la bellezza classica e la grazia che contraddistinguono la sua pittura. Ma questo ritratto multiplo riassume una stagione irripetibile. Raffaello lo dipinge nel 1518, al culmine della ricchezza, degli onori, della gloria. Pittore ormai al di sopra di ogni lode, sommerso di richieste, al punto da aver dovuto allestire una bottega con decine di collaboratori; architetto della fabbrica di san Pietro, senza più rivali (si è sbarazzato pure di Leonardo e Michelangelo), non ha più nulla da chiedere a se stesso – tanto che ci si domanda cos’altro avrebbe potuto dipingere se non fosse morto a 37 anni. Raggiunta la vetta della sua arte, potrebbe anche solo replicarsi. Invece l’occasione riaccende la scintilla. Deve fare il ritratto a Giovanni de’ Medici, ovvero papa Leone X. Ciò non dovrebbe stimolarlo, visto che è un uomo “grossolano, di brutta effigie e poca vista” (Sanudo dixit), e inoltre lo ha già ritratto almeno sei volte. Il testone e il corpo pingue e bolso del Medici ricorrono nei Palazzi Vaticani (nelle sale della Segnatura, di Eliodoro, dell’Incendio di Borgo). Ma lì recita, è in costume – travestito nei panni dei predecessori. Qui, invece, Leone X può essere solo se stesso.
Il papa aborre la miseria e la sofferenza, evita i problemi e vuol vedere solo gente bella, sana e felice. Perciò adora Raffaello, che sente affine. Sono entrambi raffinati, gaudenti, umanisti, pagani, affascinati dalla musica, dalla classicità, dalla bellezza. Femminile il pittore, maschile il papa. Raffaello deve riuscire nell’impresa di idealizzarlo – dipingerlo come vorrebbe essere – e insieme immortalarlo così com’è. Lo raffigura nel lusso di cui si compiace – simboleggiato dal colore dominante del dipinto, il rosso, in tutte le sfumature possibili; con gli emblemi del suo potere – il camauro in testa e la mozzetta sulle spalle. Ma anche col doppio mento, le palpebre gonfie, i solchi sulle guance, le occhiaie, il naso grosso. È seduto al suo scrittoio, di sbieco, assorto. Le mani sono bellissime, affusolate, bianche, femminee. La destra tiene una lente d’ingrandimento fra le dita (modo gentile di alludere alla forte miopia che gli aveva meritato il plebeo nomignolo del Talpa), e poggia su una Bibbia miniata – aperta alla prima pagina del Vangelo di Giovanni. Sul tappeto spicca una campanella d’argento, cesellata con perizia. Serve a chiamare i domestici. Ma anche i cortigiani. Che infatti accorrono, sbucando dall’oscurità, e si fermano dietro di lui. Sono suoi cugini, quasi coetanei, amici di una vita, come fratelli. Col cardinale e vicecancelliere Giulio, quello alla sua destra, il papa ha condiviso l’infanzia, lo studio all’università di Pisa, l’esilio, i viaggi in incognito in Europa. Anche il cardinale Luigi de’ Rossi vive da sempre con lui, per questo poggia le mani sulla sedia, con familiarità.
Raffaello sfida la natura, la vince e ci inganna. Stoffe, oggetti, mobili, acquistano un’evidenza tattile, materica. Il velluto, il damasco, la seta, l’argento a sbalzo, la pergamena, il laccetto della campanella, la pelliccia, i capelli, il fermafogli: ogni cosa non sembra dipinta, ma vera. Il gioco di specchi con la realtà si spinge al punto che il pomello della sedia riflette la scena: le spalle del papa, l’ombra di un corpo, la finestra della stanza che per noi è invisibile. Luigi, unico, ci guarda – smaschera la posa, ma per accrescere la finzione: tu stai guardando tre persone vive. E infatti il quadro fu mandato a Firenze in settembre, in modo da permettere ai tre di partecipare (in effigie) a un banchetto di nozze.
Il ritratto di Leone X e cugini, lodato e imitato, è un archetipo della ritrattistica occidentale. Ciò che mi ha sempre colpito è la naturalezza. Ma non nel senso del virtuosistico illusionismo di Raffaello. La naturalezza con cui un pittore dipinge un papa. Con cortigiano garbo, e però senza servilismo. Leone X è ritratto nella sua intimità quotidiana: principe, papa, amico. Così questo quadro segna un apice nei rapporti fra arte e potere. Connessi, legati, una espressione dell’altro, e però non subordinata. Durerà poco.
Nel giro di tre anni moriranno Luigi, Raffaello, poi Leone X. Sopravviverà il più coriaceo, Giulio, che sognava il mestiere delle armi e che diventerà anche lui papa, per assistere allo scisma protestante, al sacco di Roma e alla distruzione di tanta bellezza. Nel ritratto nessuno sorride. Come sapessero che l’estate del 1518 è una delle ultime della loro dolce vita. Raffaello inventa quadri che non dipinge, rileva la mappa di Roma antica, e si gode spensieratamente i suoi piaceri. Leone X, scampato a una congiura, sull’orlo della bancarotta, sfidato da Lutero che giungerà a paragonarlo all’Anticristo, dedica tutto il suo tempo al divertimento: vive fra poeti, musici e buffoni, va a caccia e la sera posa per il suo amato pittore. La sera, sì: guardate le sue guance. C’è un’ombra scura. La barba sta ricrescendo. Di giorno, il papa e il pittore, felici, hanno di meglio a cui pensare.
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