Quella figura misteriosa sepolta sotto le gocce di colore di Pollock
Melania Mazzucco
"La Repubblica", 3 febbraio 2013
Seminare parole sulla carta. Erigere un muro di caratteri, e poi inabissarsi nelle proprie pagine come in un labirinto. È il sogno di molti scrittori. Può sembrare un modo strano per cominciare un discorso su Jackson Pollock, il mito dell’avanguardia americana degli anni ’50, il rude cowboy del Wyoming, paragonato a Marlon Brando e James Dean: ma è esattamente questa la sensazione, insieme riposante e angosciante, che mi comunicano le sue opere. Come fossero dei muri che l’artista ha eretto intorno a sé, o dei mari in cui si è tuffato per annegarvi. Infatti se gli scrittori possono realizzare la fuga nell’opera solo in metafora, o finendo in manicomio, un pittore può farlo davvero. E Pollock ci è entrato dentro col corpo, con le mani, e lì è rimasto – cristallizzato, salvo, come un insetto in una goccia d’ambra.
La mia lettura è influenzata dal titolo di questo quadro. Gli storici dell’arte non attribuiscono troppa importanza ai titoli dei quadri, perché sanno che di rado gli artisti li scelgono da soli, e spesso nascono invece a quadro finito, dietro suggerimento di un amico intellettuale, poeta, critico. In questo caso, del traduttore Ralph Manheim, vicino di casa del pittore. Io però sono di quelli che nei musei si ingobbiscono per leggere la didascalia, anche se il quadro in questione rappresenta un sacco di tela o un escremento. E mi mettono a disagio le esposizioni dove ci sono ottanta opere “senza titolo”. Perché, anche se non raffigurano nulla, esse hanno pur sempre un soggetto – cioè un senso per chi le ha create. Poiché nessuna opera si realizza da sé: nemmeno se fatta sotto dettatura automatica dell’inconscio. Anche Pollock classificò molte sue opere col nome “untitled”, seguito da un numero, una lettera e l’anno di creazione. Ma ai due quadri che prediligo, Full fathom five e Deep, ha messo dei titoli “verticali”. Come se volesse assimilare la superficie orizzontale del quadro agli spazi dell’oceano o del cielo. Pollock finì per odiare ciò che gli altri apprezzavano della sua opera: il sembrare frutto del caso. Dunque mi piace pensare che Full fathom five dica molto dell’opera in questione e di lui.
Si tratta di un quadro astratto alto quasi un metro e trenta: del 1947, è uno dei primi esempi dello stile che diventerà inconfondibilmente suo. Filamenti di colore sgocciolato sulla tela formano arabeschi e ideogrammi enigmatici. Domina il verde, con inserti di bianco, arancione e rosso, fra geroglifici di linee nere. La superficie è butterata di relitti della vita materiale del pittore, incastrati sulla tela come in un collage: bottoni, fiammiferi, puntine, monete, sigarette con la cartina strappata, tappi di tubetti di colore e chiavi. Allora l’insieme assume una forma quasi antropomorfa: sembra di intravedere una figura prigioniera sotto lo strato di pittura.
Ed è esattamente così. Le foto a raggi X effettuate per il restauro hanno svelato che esiste davvero una figura, in piedi, con un braccio alzato, sotto la ragnatela di linee. È come se Pollock l’avesse seppellita dentro il suo quadro. Questo infatti significa Full fathom five: A cinque braccia sul fondo. È la canzone che Ariel canta a Ferdinando nella Tempesta di Shakespeare, descrivendo il padre che il giovane crede annegato. A cinque braccia sul fondo giace dunque un cadavere.
Ma il cadavere di chi? Si potrebbe rispondere: della figura – cioè della pittura tradizionale che Pollock, alla ricerca della sua identità, sta abbandonando. Dunque cancella, sfregia, seppellisce, con un atto liberatorio, tutto ciò che lo ha preceduto. Alcuni anni più tardi, teorizzò che l’artista moderno non può esprimere il suo tempo, l’aeroplano, la bomba atomica, la radio, nelle vecchie forme della passata cultura. Ogni età trova la sua propria tecnica. La tecnica che avrebbe messo a punto Pollock – più o meno da questo quadro – aboliva il pennello, la tavolozza, il cavalletto. Prevedeva una tela stesa sul pavimento, e la distribuzione del colore direttamente dal tubetto, mediante lo sgocciolamento (il “dripping”). La pittura diventava espressione delle energie dell’inconscio, azione (“action painting”), e l’atto della creazione più importante del suo esito. Questa tecnica è stata paragonata all’orgasmo, all’inseminazione, e anche alla minzione.
Allora si può forse rispondere diversamente. La figura che giace sul fondo è l’artista stesso. Aveva scelto di dipingere sul pavimento perché, come dichiarò in un’intervista rilasciata nei giorni di Full fathom five, così si sentiva parte del quadro – poteva camminarci intorno, ed essere letteralmente nel quadro. Un metodo simile a quello degli indiani del west che lavorano sulla sabbia.
Quando sono nel mio quadro, disse, non sono cosciente di quello che faccio, un quadro ha una vita propria, che devo lasciar emergere. E la lasciò emergere, fra il 1947 e il 1950 – l’epoca d’oro di Pollock, quattro anni scarsi in cui realizzò i suoi capolavori, in uno stato di grazia febbrile. Poi tentò di cambiare strada – senza successo, perché la critica lo aveva ormai identificato con la formula degli Untitled.
Allora entrò in crisi e si smarrì. Si ritrovò nel 1953, con Deep: ancora un titolo che evocava l’abisso. Nel bianco della tela una crepa oscura accogliente come una vagina indicava un varco, e una via di scampo. Pollock si nascose per l’ultima volta dentro la sua opera, e forse era già in salvo quando l’11 agosto del 1956 la macchina che guidava ubriaco si schiantò contro un palo e lo uccise.
L’OPERA
Jackson Pollock: Full Fathom Five (1947) New York, MoMA
L’ARTISTA
Jackson Pollock (1912-1956), pittore americano. Originario del Wyoming, studia a New York, è affascinato dai messicani Orozco e Siqueiros e da Picasso. Diventa il maggiore esponente dell’action painting: la pittura nella sua opera si fa “gesto”
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