sabato 16 febbraio 2013

Joyce: il puro piacere della scrittura


SANDRA PAOLI

"Il Manifesto", 15 febbraio 2013 

Un incontro con Franca Ruggieri, presidente della Fondazione italiana intitolata all'autore irlandese. «Nella sua prospettiva del nuovo umanesimo, è essenziale l'affermazione della libertà, sottratta al perbenismo e all'opportunismo dei compromessi» 

The difference of James Joyce è il titolo che è stato scelto per la conferenza internazionale tenutasi presso l'università Roma Tre e che ha il compito di rinnovare la tradizione di ricordare lo scrittore irlandese nel mese in cui è nato (il 2 febbraio del 1882), alla presenza di alcuni dei più grandi studiosi europei del mondo joyciano. Franca Ruggieri, presidente della James Joyce Italian Foundation, promuove e organizza da anni l'iniziativa. Come tiene a sottolineare la docente di Letteratura inglese, si tratta di una graduate conference, un convegno rivolto soprattutto agli studenti dell'ateneo che ospita annualmente l'incontro e prevede borse e assegni di studio per i giovani interessati alla sua opera. 
La James Joyce Italian Foundation ha stabilito un rapporto di collaborazione con altre università europee, comprese ovviamente quelle di Belfast e Dublino. Il nucleo joyciano di Roma ha ormai qualche decennio, essendo nato nei primi anni Settanta del Novecento attorno alla figura di Giorgio Melchiori, la cui presenza sulla scena degli studi italiani dedicati all'autore irlandese risale alla pubblicazione nel 1960 della prima traduzione italiana di Ulisse di Giulio De Angelis. Nel 1984, era nata, con Giorgio Melchiori, la rivista Joyce Studies in Italy. Nel 2006, invece, è stata costituita la James Joyce Italian Foundation che ha il suo centro proprio all'università Roma Tre.
La vostra attenzione nei confronti dei giovani ha una ineluttabile necessità: fare i conti con la nota complessità dell'opera di Joyce. Paulo Coelho lo ha indicato come l'autore che considerava la letteratura «puro stile», tolto il quale il contenuto è zero...
Joyce da giovane distingueva - e fa parte del suo atteggiamento molto consapevole - tra artista letterato e scrittore. Si può essere scrittore senza avere una propria visione del mondo, di quello che uno vuol dire, che pensa di dover dire, senza un impegno autentico verso se stesso e gli altri. E questo fa la differenza. Questa è arte. S'impara con una lunga interazione tra il mestiere di scrivere e quello di trovare la forma migliore per esprimere il pensiero di quella visione. L'artista è una cosa e lo scrittore di professione un'altra. 
Si può essere d'accordo o meno su quanto Joyce sia leggibile, ma certamente esprime una visione delle cose. Diverso il caso di chi vuole confezionare un bel prodotto e venderlo al maggior numero di persone possibile. E non penso solo a Coelho. Ci sono scrittori irlandesi, più o meno di talento, che considerano Joyce un peso ingombrante, una presenza che toglie spazio a un libero esercizio dello strumento letterario. Non è arte raccontare una bella storia. Di grande successo. Merce che vende e viene letta in metropolitana. Certamente, il rischio di uno scrittore come Joyce è ancora quello di diventare proprietà privata di una critica specialistica. E si crea un intervallo, una distanza tra lo specialismo degli specialisti e una potenziale fruizione da parte di un pubblico più ampio. Si può colmare questa distanza? L'anno scorso ho tenuto delle lezioni su Ulisse a una classe di studenti universitari, non specialisti: ho cercato di non infierire con un apparato di note troppo ricco e ingombrante, ma dando linee di lettura e leggendo insieme alcuni episodi. E ho trovato che è possibile farlo.
È chiaro che Joyce scriveva per essere letto, per il piacere inesauribile del gioco infinito e polifonico del linguaggio, per la messa a nudo di tutto quello che l'apparenza delle cose nasconde, per la costruzione di una coscienza critica, non certamente per rimanere chiuso nelle nuove torri d'avorio della critica letteraria. Nella prospettiva del nuovo umanesimo, che Joyce propone, è infatti essenziale l'affermazione della dignità dell'uomo, della sua libertà, sottratta al perbenismo delle convenzioni e all'opportunismo dei compromessi. Una libertà che possa essere gestita e vissuta indipendentemente dai poteri costituiti. Certo, un best seller non si pone il problema della libertà, perché deve misurarsi, piuttosto, con altre questioni: il rapporto con il suo agente, il pubblico, l'editore, il mercato.
La James Joyce Italian Foundation cura la pubblicazione di una collana di testi più divulgativi. Di che si tratta?
Dal 2007 abbiamo, tra le altre pubblicazioni, la Piccola Biblioteca Joyciana, che contempla piccoli volumi a tema, accessibili per un lettore comune e medio. Finora sono usciti undici volumi. 
La scrittura di James Joyce è ritenuta difficile da tradurre. E, tuttavia, è uno scrittore molto tradotto. Ultimamente è stata pubblicata anche la versione cinese di Finnegans Wake, diventata poi un best seller. Di recente Ulisse ha avuto anche una nuova versione italiana, a cura di Enrico Terrinoni. Cinquant'anni fa la prima traduzione di Ulisse da parte di Giulio De Angelis. Che cosa è cambiato nel tempo riguardo le modalità di traduzione, in particolare nella nostra lingua, di un autore come Joyce rispetto ad altri letterati?
La traduzione è sempre un'opera che si pone nel tempo. E all'origine di quella ad opera di Enrico Terrinoni, con la revisione di Carlo Bigazzi, c'è l'esigenza più recente ( già espressa nel 2009 da Declan Kiberd in Ulysses and Us. The Art of Everyday Living), di mettere in luce la dimensione irlandese, la Irishness della cultura e della lingua del romanzo, di restituire anche così Ulisse ai suoi potenziali lettori, irlandesi ed europei. 
È l'esigenza di riproporre all'Irlanda e all'Europa un classico della letteratura irlandese ed europea, nella sua dimensione di «umana commedia» e di viaggio della mente - nella tradizione di Dante e di Sterne - per il messaggio di tolleranza e di pacifismo, per l'affermazione di libertà dell'individuo, di cui ancora oggi, più che mai, si avverte la necessità.
Lo scorso anno, lei ha pubblicato il libro «Joyce, la vita, le lettere»....
Joyce ha sempre sofferto di una dimensione della critica che ha fatto coincidere la sua biografia - e anche la sua «dimensione quotidiana» - con la sua opera. Il che è servito non poco a creare il mito della vita di Joyce, il mito dei luoghi joyciani, delle coincidenze, in cui per altro lo scrittore stesso confidava. Un gioco facile, che avrebbe potuto agevolare il rapporto con il lettore medio, ma che alla fine ha prodotto molti equivoci. Il personaggio non coincide mai con l'autore. Da una parte, lo scrittore è tutto nell'opera, dall'altra gioca con i suoi personaggi. Li ironizza e, naturalmente, li espone.
C'è anche un Joyce «osceno»....
È la censura puritana che ha impresso su Ulisse il marchio di «osceno», fraintendendo e banalizzando proprio la dimensione innovativa e inclusiva del nuovo realismo, di quel nuovo umanesimo, che è alla base di tutta la scrittura di Joyce.
D'altra parte, Joyce è un autore che ha scritto un numero infinito di lettere, dove parla di letteratura, di storia, di cronaca, di musica, di pittura, riflette sulla vita contemporanea, la politica irlandese, quella europea e italiana. La sua vita fluisce nelle lettere, che commentano la sua opera. È una circolazione continua di tutto quello che l'uomo Joyce scrive e pensa nella sua esistenza privata e nella sua dimensione pubblica. Racconta le sue ultime letture, come pure le cene della famiglia nelle trattorie romane. Tutto questo è Joyce. In Joyce c'è un registro in cui tutto si unifica, tutto è presente.
L'opera di Joyce e la sua stessa biografia rappresentano e anticipano quell'incrocio di culture interdipendenti che caratterizza l'Europa contemporanea ...
Non so quanto il nuovo realismo enciclopedico di Joyce, che rivisita mito e tradizione attraverso la lente del modernismo, anticipi la globalizzazione, l'incrocio di culture e anche la frammentazione ossessiva dell'Europa di oggi. La sua formazione è quella di un irlandese con radici cattoliche, che studia dai gesuiti. 
Attraverso il loro insegnamento, assume molto presto una cultura classica, rinascimentale, post-rinascimentale e contemporanea: Omero, Ovidio, Dante, Giordano Bruno, Vico, D'Annunzio e altri scrittori italiani, letti in italiano. Scrive nei primi vent'anni del Novecento, che sono un laboratorio di idee, di sperimentazioni, di avanguardie, di nuovi saperi. La sua è stata una generazione interculturale ed europea.
Quest'anno, la conferenza era intitolata The Difference of Joyce. Perché questa definizione?
Perché difference è una parola felicemente ambigua, polisemica: suggerisce tante «differenze», distingue e rende diversa da altre la scrittura di Joyce, ma anche allude alla «différance» di Derrida. 
Un irlandese di formazione cattolica, più o meno qualsiasi, una famiglia dissestata alle spalle, un padre che non riusciva a mantenere un lavoro stabile. Che però decide che questo è il figlio più intelligente e lo iscrive al migliore dei college dei gesuiti. È stato il suo solo privilegio, che ha gestito molto bene, con grande autostima e perseveranza. Joyce è stato un self-made intellectual ed è diventato uno scrittore sofisticato. Anche questa è la differenza di Joyce.

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