ARMANDO TORNO
"Corriere della Sera", 12 febbraio 2013
Dimissioni, abdicazioni, deposizioni hanno attraversato le vicende della Chiesa.
Il Codice di diritto canonico recita: «Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti» (canone 332, comma 2). Parole che non hanno bisogno di commenti e che, accostate a quelle di Benedetto XVI in Luce del Mondo (con Peter Seewald, Libreria editrice vaticana 2010), aiutano a comprendere la decisione: «Se un Papa comprende di non essere più in grado fisicamente, psicologicamente e spiritualmente, di assolvere ai doveri del suo ufficio, allora ha il diritto e, in alcune circostanze, anche l'obbligo di dimettersi».
È difficile trovare nella storia del papato altri casi analoghi, giacché soltanto Celestino V può rappresentare un significativo precedente per Benedetto XVI. Altri successori di Pietro hanno abdicato, ma sovente lo fecero in circostanze particolari; la loro, in altri termini, non è stata una scelta paragonabile all'attuale. Per esempio, Clemente I, santo e Papa — secondo la Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea — dal 91 o 92 al 101. Arrestato ed esiliato, non è certo che rinunciasse a favore di Evaristo: così come non abbiamo a nostra disposizione notizie «attendibili» su questo successore (John N. D. Kelly, The Oxford Dictionary of Popes). Il martirio di Clemente è documentato soltanto dal IV secolo, tuttavia è attestato dal Liber pontificalis, preziosa collezione di biografie papali da Pietro a Pio II (morto nel 1464). Ireneo, figura di spicco tra i Padri del II secolo, nel suo trattato Contro le eresie ricorda la relazione personale che ebbe con Pietro e Paolo.
La prima vera abdicazione si ha con Ponziano, che resse la Chiesa sino al 235 quando, insieme al presbitero Ippolito, fu condannato alle miniere in Sardegna. Non potè in quelle condizioni portare a termine il mandato, si dimise e venne eletto Antero. Il 28 settembre, giorno del suo ritiro, è attestato dal Catalogo Liberiano del IV secolo: è anche la prima data registrata con precisione nella storia dei Papi, dal momento che — sottolinea l'Oxford Dictionary of Popes — «altre apparentemente certe sono invece basate soltanto su deduzioni».
Anche Silverio, Papa e santo, fu al centro di una vicenda di dimissioni. Non furono volontarie. L'Enciclopedia Cattolica (12 volumi, Città del Vaticano 1948-54) così narra i fatti: «Nel marzo 537 per la terza volta fu chiamato al palazzo di Belisario, e mentre i suoi chierici furono fermati in anticamera, Silverio fu introdotto e accompagnato dal solo Vigilio. Improvvisamente un diacono gli tolse di dosso il pallio mentre altri due lo rivestivano con abito monacale. Ai chierici in attesa fu annunziato che Silverio non era più Papa e che pensassero ad eleggere il successore: naturalmente l'eletto fu Vigilio! Silverio fu mandato in esilio a Patara in Licia; quivi potè far conoscere al vescovo del luogo il vero stato delle cose, e questi santamente ardito si recò da Giustiniano rimproverandogli l'atroce misfatto». Non si creda che la faccenda si concludesse felicemente: «L'imperatore ordinò allora che Silverio fosse ricondotto a Roma e sottoposto a un regolare giudizio, ma giunto in Italia fu consegnato a Vigilio che lo fece relegare nell'isola Palmaria dove morì di stenti e di fame». Vigilio fu Papa sino al 555.
Martino I (morto nel 655 in Crimea), non riconosciuto Papa dall'imperatore Costante II e fatto imprigionare dall'esarca Teodoro Calliopa, non diede vere e proprie dimissioni: durante il suo esilio elessero successore Eugenio I. Benedetto IX, che Voltaire nel Dizionario filosofico indica come colui che «comperò e rivendette il pontificato», fu successore di Pietro in momenti distinti. Anche l'Enciclopedia Cattolica sottolinea che «non era affatto degno» per «l'altissimo ufficio a cui era chiamato»: troppo giovane, vita dissoluta, il 1° maggio 1045 «pubblicò un atto di abdicazione in favore del suo padrino Giovanni Graziano, che fu poi eletto e prese il nome di Gregorio VI» (The Oxford Dictionary of Popes). Ritornò poi ad essere pontefice nel novembre 1047, ma gli imperiali lo costrinsero nel luglio 1048 a cedere il trono a Damaso II, vicario di Cristo per una ventina di giorni. L'ultimo documento che ci resta di lui, una donazione del settembre 1055, lo chiama ancora Papa.
Celestino V, che abdicò il 13 dicembre 1294 (morì nel maggio 1296) leggendo dinanzi ai cardinali la formula della propria rinuncia, libera e spontanea, è l'unico degno paragone con Benedetto XVI. Canonizzato nel 1313, Dante lo pone nel III canto dell'Inferno: «Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,/ vidi e conobbi l'ombra di colui/ che fece per viltade il gran rifiuto» (versi 58-60). Ebbe fama di asceta, di guaritore miracoloso, il successore Bonifacio VIII lo fece porre sotto stretta vigilanza, anzi lo confinò nella torre di Castel Fumone a est di Ferentino. Aveva paura, e con validi motivi, che potesse diventare riferimento per uno scisma.
Si arriva a Gregorio XII. Anche in tal caso più che un'abdicazione c'è una deposizione. Nel 1406, dopo la morte di Innocenzo VII, per mettere fine allo scisma che durava dai giorni di Urbano VI (morto nel 1389), i cardinali riuniti in conclave si impegnarono a dimettersi in caso di elezione se così avesse fatto anche l'antipapa Benedetto XIII, sedente in Avignone; quest'ultimo giurò cosa analoga. Si arrivò invece, con il sinodo di Pisa (1409), all'elezione di un terzo Papa, Alessandro V. Gli altri due furono dichiarati scismatici, spergiuri ed eretici. Ma l'ultimo morì nel 1410 e subito fu proclamato Giovanni XXIII, poi deposto dal Concilio di Costanza, assemblea che avviò i negoziati con Gregorio: si dichiarò pronto ad abdicare. Nel luglio 1415 se ne andò. Visse sino al 1417.
Potenza delle coincidenze simboliche
Franco Cardini
"Il Manifesto", 12 febbraio 2013
Potenza delle coincidenze simboliche, ironia della storia. Il settimo vescovo di Roma dopo quello che fu il protagonista della Conciliazione tra la chiesa e lo stato italiano se ne va - caso, più che raro, propriamente unico nella lunga storia del pontificato - l'11 febbraio, esattamente nell'ottantaquattresimo anniversario di quell'evento: e al tempo stesso due giorni prima della solennità penitenziale delle ceneri. E il giorno dopo, 12 febbraio, martedì grasso, scoppia il gran carnevale romano delle dietrologie e del totopapa. Perché se n'è andato Benedetto XVI? E chi gli terrà dietro? Se i media sembrano impazziti, la follia dei blog trionfa in termini d'un caleidoscopio rabelaisiano. Il papa se ne va dicendo che lo fa «per il bene della chiesa»: ma, secondo l'antica cosiddetta Profezia di san Malachia, discusso ma comunque inquietante testo forse del XII, forse del XVI secolo, che mette in fila 112 motti latini ciascuno attribuibile alle caratteristiche di altrettanti papi, tanti quanti a metà del XII secolo si diceva dovessero succedersi nella storia sino alla fine della chiesa (e del mondo?), a Benedetto XVI sarebbe spettato l'epiteto di De pace olivae.
Non è forse l'olivo il simbolo della pace? E non sarà che papa Ratzinger, andandosene «per il bene della chiesa», se ne sia in realtà andato pro bono pacis, sentendo di non poter più reggere ai conflitti interni alla gerarchia e alla stessa comunità dei credenti: conflitti dei quali egli, a torto o a ragione, si è sentito almeno in parte responsabile, o per aver contribuito a farli maturare o per non riuscire a gestirli?
E adesso, quo vadis, romana ecclesia? Chi sarà il prossimo ad ascendere al soglio del principe degli apostoli?
Ratzinger s'immergerà probabilmente nel silenzio, come alcuni anni or sono scelse di fare Carlo Maria Martini, che in molti avrebbero voluto veder papa al suo posto. Continuerà senza dubbio a studiare e a pregare, scriverà magari altri libri, ma forse tornerà ai suoi prediletti conforti, il pianoforte e i gatti.
E su chi all'interno del Sacro Collegio gli succederà, dopo un conclave che possiamo aspettarci abbastanza a breve e al quale evidentemente il cardinal Ratzinger non parteciperà, impazza la ridda delle scommesse.
Ci si affida anche alle tradizioni, alle leggende. Come quella che i cognomi dei pontefici si alternino tra quelli con e quelli senza la lettera "r": il che escluderebbe automaticamente, ad esempio, Bertone, il quale è però favorito da due altre circostanze profetico-leggendarie: la prima ch'egli è il camerlengo pontificio (i camerlenghi sono molto favoriti, come futuri papi); la seconda che egli si chiama di primo nome Tarcisio ma di secondo Pietro e ch'è nato in un paese piemontese di nome Romano. Ora, la Profezia di Malachia nomina come papa successore di De pace olivae un Petrus romanus, e aggiunge che sarà l'ultimo della storia della chiesa.
In che senso? In quello che da allora in poi tale istituzione muterà il suo assetto direzionale e non saranno più eletti papi, o in quello che sarà la chiesa stessa a scomparire, o in quello che finirà il mondo?
Ma le profezie riguardano il futuro. Pensiamo al presente. Era parecchio tempo, per la verità, che tra gli addetti ai lavori, i vaticanisti, circolava la dicerìa dell'intenzione del papa di tirarsi da parte. L'abbiamo sottovalutata tutti, anche perché di vere e proprie dimissioni, nella lunga storia del papato, non se ne sono in fondo mai avute. Anche qui, la ridda delle ipotesi è vertiginosa. Le ragioni gravi di salute - alcuni hanno parlato di problemi oculistici massicci, altri hanno addirittura evocato lo spettro di un diagnosticato Alzheimer - sono state escluse dall'abilissimo responsabile della sala stampa vaticana, padre Lombardi, che è maestro nell'eludere con affabile eleganza le domande compromettenti ma che è di solito molto affidabile: e che ha esplicitamente detto che nessun processo morboso in atto o in vista è stato causa delle decisioni del Santo Padre. Ma allora, che ruolo hanno le ragioni fisiche nel terzetto di motivi che il papa stesso ha indicato nel suo breve scritto in tedesco che ha fatto seguito alla dichiarazione, pronunziata in latino alla fine del concistoro del mattino dell'11?
Egli ha alluso con sobrietà ma anche con precisione a ragioni fisiche, psichiche e spirituali: in quest'ordine, omettendo però di dirci se stava enumerandole dalle più gravi alle più leggere o viceversa. Ora, è abbastanza normale che un ultraottantenne accusi qualche acciacco e che senta vivo il desiderio di ritirarsi e di godersi un po' di riposo. Ma che questa sacrosanta necessità fisica si accompagni a uno stress "psichico" e addirittura "spirituale", quindi - più che a una somma di tensioni e di preoccupazioni - a un vero e proprio turbamento, fa pensare. Il concistoro, cioè la solenne riunione con i cardinali, alla fine del quale si è avuto l'annunzio del papa, lascia quasi ipotizzare che la sua decisione, magari a lungo meditata e maturata, sia arrivata in tempi così inattesi in seguito a un qualche evento all'interno dei lavori della mattinata. Si discuteva sulla canonizzazione dei "martiri di Otranto", cioè delle vittime di una scorreria turca nel salentino del 1480. Che l'evento abbia provocato fra i cardinali una discussione sull'opportunità o meno di richiamare un episodio che mette di nuovo in luce la lotta tra cristiani e musulmani, con tutti i risvolti attualistici del problema, e che ciò sia stato causa di un nuovo e più duro emergere delle tensioni interne alla chiesa, delle lacerazioni che ormai attraversano la comunità dei fedeli non meno della gerarchia? O che abbiano qualche ragione gli osservatori statunitensi che hanno interpretato il gesto di papa Ratzinger come un risultato delle difficoltà economiche e finanziarie che ultimamente hanno sfiorato la stessa cattedra di Pietro? Ma anche quei problemi hanno un risvolto ben più profondo, in termini addirittura di concezione del cristianesimo.
Che cosa intendeva dire Paolo VI quando alluse al «fumo di Satana» insinuatosi all'interno della Chiesa? Che rapporto può esserci, ormai, proprio nella compagine dei cattolici - e parlo da cattolico anch'io - tra i soliti ignoti o seminoti che hanno potuto favorire la resistibile ascesa di un Gotti Tedeschi da una parte e gli Enzo Bianchi o gli Andrea Gallo dall'altra?
Tra i prelati che benedicono le lobbies multinazionali e i loro business e quelli che stanno dalla parte degli "ultimi", ora che secondo i calcoli più recenti il 90% della popolazione mondiale vivacchia gestendo appena il 10% delle risorse del mondo, e che quindi gli "ultimi" rasentano i 6 miliardi di persone mentre la ricchezza è concentrata nelle mani di poche centinaia tra famiglie e gruppi?
Come si può fare tranquillamente il "mestiere di papa", mentre la sofferenza dei poveri arriva davvero a lambire il trono di Dio e grida sul serio vendetta al Suo cospetto?
Accanto al presente, è il passato ad aiutarci: a patto di leggerlo correttamente. Lasciamo perdere il caso di Celestino V, un mistico eremita ignaro delle cose del mondo eletto nel 1294 in quanto considerato docile strumento nelle mani di chi lo avrebbe diretto e ritiratosi dopo cinque mesi per manifeste debolezza e incapacità: sia o no lui - non è mai stato provato con certezza - che Dante indica senza nominarlo come «colui che fece per viltade il gran rifiuto», nulla lo può avvicinare al colto, avveduto, prudente e competentissimo Joseph Ratzinger, che conosceva alla perfezione i meccanismi curiali e che per anni ha retto la chiesa anche prima di esser papa, discretamente nascosto dietro la mole gigantesca di quelGiovanni Paolo II che regnava eccome, ma non governava per nulla.
E lasciamo da parte anche i divertenti casi del fosco e ferreo XI secolo, Benedetto IX che più che dar le dimissioni vendette letteralmente l'ufficio pontificale, per parecchie libbre d'oro, a Gregorio VI suo pupillo che lo acquistò, e che a causa di ciò fu poi deposto per simonia. Ma forse ci aiuta il paragone con il Quattrocento, e più in particolare con il quinquennio 1409-1414, quando lo scandalo dello scisma e della chiesa divisa tra obbedienza romana e obbedienza avignonese causò la deposizione, uno dopo l'altro, di ben tre pontefici (Gregorio XII, Benedetto XIII e Alessandro V) e la convocazione del concilio di Costanza. Forse è proprio questo, il problema del concilio e quindi della direzione monarchica o collegiale della chiesa, quel che nel Quattrocento fu messo a tacere dopo il 1449 e lo scioglimento del concilio di Basilea, ma che con forza tornò a venir discusso con il vaticano II. Può darsi che, nelle tensioni vigenti oggi all'interno della chiesa, la questione conciliare sia tornata a riproporsi: e con essa i temi della direzione collegiale, del celibato del clero, del sacerdozio femminile, soprattutto della "chiesa dei poveri".
Dopo l'orgia di bestialità con le quali neocons e teocons, cristianisti libertarians e "atei devoti" ci hanno ammorbato negli ultimi lustri, può darsi che la discussione sul senso da dare al tema dell'Avvento del regno dei cieli all'inizio del III millennio si sia riproposta con forza, e il tempo delle scelte si stia avvicinando. Che un teologo e giurista ultraottantenne non se la sia sentita di esser lui ad affrontare e gestire l'insorgere di queste antiche eppur sempre nuove problematiche, sarebbe più che comprensibile.
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