giovedì 14 febbraio 2013

Primo Levi, l’ultimo libro che lesse ad Auschwitz


Esce per la prima volta “Tempesta” di Vercel, citato in “Se questo è un uomo”

Valerio Magrelli

"La Repubblica",  13 febbraio 2013

A volte un’unica lettura può fare la fortuna di un’opera. È il caso di un volume che gioca un ruolo cruciale in uno dei testi più celebri del Novecento italiano: Se questo è un uomo di Primo Levi. Lo spiega molto bene Andrea Cortellessa nell’introduzione alla traduzione italiana del libro di cui per ora taceremo il titolo. Verso la fine del suo capolavoro, Levi narra gli ultimi momenti nel lager di Auschwitz-Monowitz. L’11 gennaio 1945, quando si sente già il tuono dei cannoni russi, il detenuto viene ricoverato nell’infermeria per scarlattina. Poco dopo, però, i nazisti annunciano che l’indomani bisognerà lasciare il Campo. Per i ventimila reclusi, una marcia a tappe forzate nel gelo significa la morte. Levi, però, febbricitante, non può muoversi. Così, a tarda notte, un medico greco, «colto, intelligente, egoista e calcolatore», con un gesto fra pietà e disprezzo gli getta sulla cuccetta un romanzo francese: «Tieni, leggi, italiano». A distanza di anni lo scrittore ricorderà: «Ancora oggi lo odio per questa sua frase. Sapeva che noi eravamo condannati».
Cominciano così dieci giorni che Levi trascorre sprofondato in quel libro, il primo dopo tanto tempo, leggendolo e rileggendolo, finché avviene il miracolo: «I tedeschi non c’erano più». Il titolo del volume sarà svelato solo nel 1980, nell’antologia La ricerca delle radici: si trattava di Remorques di Roger Vercel, adesso pubblicato da Nutrimenti con il titolo Tempesta (traduzione di Alice Volpi). A distanza di decenni, l’autore di un saggio come I sommersi e i salvati si mostrò dunque attaccatissimo a quella lettura casuale. Secondo Cortellessa, il motivo che può averlo spinto verso Vercel può essere individuato nella trama: «In fondo cosa fanno il capitano Renaud e i suoi uomini, a bordo del loro rimorchiatore d’altura, se non salvare all’ultimo momento coloro che stanno per essere sommersi? » Bastano questi pochi indizi, per catapultarci all’interno di un’opera del 1935 che in verità riscosse un certo successo. Lo dimostra un fortunato film trattone da Jean Grémillon nel 1939 (sceneggiatura di André Cayatte, dialoghi di Jacques Prévert), con l’intento di riunire la coppia formata un anno prima da Jean Gabin e Michèle Morgan nel leggendario Quai des Brumes (Il porto delle nebbie).
Nato a Le Mans nel 1894, Roger Vercel (pseudonimo “obbligato” per un cognome quale Crétin) fu professore di lettere al collegio di Dinan, e nel 1934 ottenne il Premio Goncourt per il romanzo Capitan Conan, adattato per il grande schermo da Bertrand Tavernier nel 1996.
Dopo essersi distinto nella Prima guerra mondiale, trascorse una vita tranquilla e si spense nel 1957. Tuttavia, una foto del 1934 con i baffetti alla Hitler non sembra promettere nulla di buono. Infatti, due anni fa è emerso dagli archivi un suo articolo violentemente antisemita, pubblicato nell’ottobre 1940, che ha scatenato numerose polemiche. Ma veniamo ai suoi Remorques (ossia, banalmente, Rimorchi), che l’editore ha preferito rendere con il più epico ma prevedibile Tempesta.
Il libro narra la storia del capitano Renaud, comandante del rimorchiatore da salvataggio Ciclone. Basta un accenno del genere per rivelare la matrice conradiana dell’opera, con l’esplicito riferimento al racconto Tifone, tradotto in francese nientemeno che da André Gide. L’intreccio verte sul pericoloso salvataggio di un battello greco (sarà stato questo particolare a interessare il medico di Levi?), pilotato da un uomo che si rivelerà avido, ingrato e senza scrupoli. Ambientato fra i porti della Bretagna, Tempesta è insomma un’avventura marinara, ma segnata da un profondo dilemma sentimentale, poiché Renaud, afflitto dalla malattia della propria moglie, si sentirà per un momento attratto dalla moglie dell’altro capitano. Amore e morte, eroismo e tradimento, si alternano così in uno stile epico-realista, dominato dall’immenso personaggio del Mare. Ma anche nel lento, robusto e tradizionale flusso narrativo, si aprono scene stranianti. È il caso di una nave abbandonata che nasconde come carico delle casse di bambole, «bambole in abiti leggeri che dormivano tutte, perché avevano gli occhi mobili e erano distese sulla schiena».

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