sabato 23 febbraio 2013

Ian McEwan

"Confesso, talvolta mi perdo e non credo più nella letteratura"

Lo scrittore racconta di quando non riesce a leggere romanzi. 
"Possiamo vivere anche senza storie"

"La Repubblica", 18 febbraio 2013

Come un ecclesiastico vittoriano tormentato nel buio dai propri dubbi, ho dei momenti in cui la mia fede nella narrativa vacilla, e poi giunge al limite del collasso. Mi ritrovo a chiedermi, sono davvero un credente? E poi, lo sono mai stato? I primi a saltare sono i racconti di narrativa sperimentale sconnessi e sovvertiti.
Ah, bene… Poi, il miracolo della nascita verginale del realismo magico. Ma su questo sono sempre stato uno della Chiesa bassa. È quando le gelide acque dello scetticismo cominciano a salire intorno alle sottane del realismo che capisco che ha avuto inizio la mia lunga notte. L’impresa ha perso ogni senso. I romanzi? Non so come o quando sospendere la mia incredulità. Ciò che l’immaginario Henry ha detto o fatto all’inesistente Sue, e l’infanzia solitaria di Henry, la sua guerra, il suo divorzio, la sua passione e la sua lotta con la verità e quanto egli sia uno specchio della sua epoca: non credo a una parola, non credo all’arrugginito espediente di fingere che il clima abbia qualcosa a che fare con l’umore di Henry, non credo all’arrugginito espediente del fingere.
Quando il dio della narrativa ti abbandona, bisogna liberarsi di tutto. Della chiesa tappezzata di libri, del pulpito con il microfono, della rispettosa congregazione, del catechismo dell’intervistatore, delle confessioni travestite da domande, della riga che supplica il potere di guarigione di una firma, della benedizione o maledizione del critico letterario. Lo confesso, ho fatto parte di quei gruppi con i miei compagni di fede, mentre intonavamo la liturgia che gli esseri umani sono affabulatori, che “non possiamo vivere” senza storie. Non è possibile vivere, suggeriscono sempre i preti, senza di esse. (Oh sì, possiamo). Il mio cuore di scettico viene meno quando vago nel reparto narrativo di una libreria e vedo torri smisurate sul tavolo delle novità, le citazioni imploranti sulla copertina (Lui l’amava, ma lei lo avrebbe ascoltato?), i sommari della trama in sovraccoperta nel loro grave tempo presente: Henry spezza i legami del suo matrimonio e si imbarca in una serie di selvagge...
Questo accade quando penso che scenderò nella tomba senza aver letto Anna Karenina per la quinta volta, o Madame Bovary per la quarta. Ho 64 anni. Se sono fortunato, potrebbero restarmi ancora una ventina d’anni di buone letture. Insegnatemi che cos’è il mondo! Datemi i cosmologi sulla creazione del tempo, i cronisti dell’Olocausto, il filosofo che ha sposato la neuroscienza, il matematico che può descrivere la bellezza dei numeri a uno zuccone, lo studioso dell’ascesa e caduta degli imperi, gli adepti della guerra civile inglese. A parte qualche raro piacere, che cosa ne avrò o saprò al termine dell’ennesimo romanzo sul rimorso o il trionfo di Henry? Potrebbe un romanziere gentilmente dirmi perché iniziò la rivoluzione industriale o come il bosone di Higgs conferisca massa alle particelle fondamentali, o come si sia evoluta la morale, o che cosa pensasse Salieri del giovane Schubert nel suo coro? Se mi importasse qualcosa dei mal di pancia di Henry, potrei leggermi un canto dai Dream Songs di Berryman in meno di quattro minuti. E con le quindici ore risparmiate, soffermarmi su qualche caso legale (eventi reali!), un’introduzione buona come un’altra alle stranezze e alla ferocia del cuore umano.
Questa apostasia si insinua nell’ampia breccia che separa la conclusione di un romanzo e l’inizio del successivo. Non è un blocco, non è esattamente una lunga notte, quanto un fatto di profonda indifferenza. La felicità è altrove. Possono passare dei mesi, e poi arriva uno spostamento, un riallineamento. Comincia con una piccola spinta. Un dettaglio, una frase, un’affermazione possono avviare l’inizio di un ritorno nel gruppo. Non c’è bisogno che sia brillante. Deve solo trasudare un certo calore immaginativo.
Un recente ritorno alla fede è iniziato con la rilettura di due brevi racconti. (C’è persuasività nella concisione.) Il primo è il molto discusso e celebrato racconto di Nabokov, Segni e simboli. Un’anziana coppia, schiantata dal dolore, visita il proprio figlio sofferente di disturbi mentali in un istituto psichiatrico, il giorno del suo compleanno. La madre non si è truccata. Invece, «presentava un volto bianco e nudo a quella luce primaverile che metteva in risalto i difetti». In modo perfettamente intonato e ritmicamente avvolto su un paradosso modesto o pacato, la primavera, convenzionalmente foriera di speranza, porta soltanto una critica a livello personale.
Il secondo è stato Twin Beds in Rome, di Updike. I Maples hanno deciso di divorziare, ma non riescono ancora a staccarsi l’uno dall’altro sessualmente. Vanno in vacanza insieme in Italia. Lo fanno per abitudine. Là, Richard scopre che le sue scarpe, comodissime a casa sua, sono diventate uno strumento di tortura e che riesce appena a camminare. Lui e Joan si imbattono in un negozio romano di calzature dove lui si compra un paio di mocassini in pelle nera di alligatore. «Erano troppo attillati, fatti con grande eleganza, ma erano morti – non stringevano con quella vitale, indignata veemenza delle altre». Mi è piaciuto questo “morti”. L’alligatore era morto, suggerisce questa piccola osservazione. Una creatura vivente deve aver causato il tormento nelle scarpe americane. Il fattore mondano, nella formulazione stessa di Updike, ha quel che si merita, in termini comici e senza ambizioni.
Un ex studente della Cornell University ha ricordato, sulla rivista letteraria TriQuarterly: «Accarezza i dettagli», direbbe Nabokov arrotando la r, con la sua voce simile all’aspra carezza di una lingua di gatto, «i divini dettagli!».
Sono felice di accettare quel consiglio. Non pretendo altro dalle frasi citate, salvo dire che hanno segnato l’inizio di un disgelo nella mia indifferenza. Sono dei suggerimenti, non delle rivelazioni. Ciò che hanno in comune è la loro dimostrazione della generosa capacità della narrativa di annotare la microscopica filigrana della consapevolezza, i minuscoli caratteri della soggettività. Sono entrambi racconti in terza persona che contengono la perla di un’esperienza in prima persona: la luce primaverile che mette in evidenza i difetti, le scarpe non più vive che mordono. Nell’apprezzare queste righe, non solo sei una cosa sola con lo scrittore, ma con chiunque altro le apprezzi. Nell’atto dell’apprezzamento, i tesi confini dell’individualità si allentano un poco. Questo non avviene quando impari che cosa fa un bosone di Higgs.
Ho un ricordo di quand’ero bambino, nel quale accarezzo un dettaglio in un romanzo. Ricordare il momento è un altro modo di ritrovare la fede nella narrativa. Fu un’esperienza ipnotica, che ha avuto delle conseguenze per tutta la vita, perché mi mostrò come il mondo fattuale e quello narrativo possono penetrarsi l’un l’altro. Avevo tredici anni, ero solo nella biblioteca scolastica, incantato da Messaggero d’amore, il romanzo di L. P. Hartley. Il suo protagonista, Leo, di famiglia povera, trascorre l’estate del 1900 in vacanza con un compagno di scuola la cui famiglia possiede una grande villa in campagna. Il cuore della vicenda, naturalmente, è il ruolo di Leo come messaggero in una storia d’amore clandestina. Ma ciò che mi attrasse fu l’ondata di calore di quel mese di luglio, e l’attrazione di quel ragazzino per il termometro della serra e come potesse raggiungere i 100 gradi Fahrenheit. Un giorno arriva alla villa una copia del settimanale satirico, Punch, dove una vignetta mostra “Il signor Punch sotto l’ombrello si asciuga la fronte, mentre il cane Toby, con la lingua di fuori, si affloscia dietro di lui”.
Ricordo di aver messo da parte il libro, con mossa ispirata, e di avere attraversato la biblioteca per andare a cercare lo scaffale dove erano riposte le vecchie copie rilegate di Punch, di aver tirato giù il volume del 1900 cercando il mese di luglio. Ed eccoli lì, il cane sovraccaldato, l’ombrello e il signor Punch che si preme un fazzoletto sulla fronte! Era vero. Ero rapito, esultante per il potere di qualcosa al tempo stesso immaginato e reale. E per un attimo, provai una singolare tristezza, la nostalgia per un mondo dal quale ero escluso. Per un momento, ero stato Leo, avevo visto ciò che lui aveva visto, poi mi trovai di nuovo nel 1962 ed ero in collegio, e non c’erano amanti tra cui fare la spola, nessuna ondata di calore, e non restava che questo, una rivista ingiallita.
Allora non potevo capirlo così, ma avevo visto come il realismo può essere potenziato da ciò che accade davvero. Venti anni dopo, l’ho sperimentato personalmente. Cose che non sono mai accadute possono mescolarsi con cose successe, una creatura immaginaria può prendere per mano la realtà in carne ed ossa, può vivere in casa tua, come il mio Henry fece una volta, può leggere tutto ciò che hai letto e perfino fare l’amore con tua moglie. L’ateo può riposare con il credente, l’enciclopedia con la poesia. Tutto ciò che hai assorbito e di cui ti sei stupito nei mesi privi di fede (la scienza, la matematica, la storia, la legge e tutto il resto) puoi portarlo con te e usarlo quando torni nuovamente all’unica vera fede.
(Traduzione di Luis E. Moriones) 

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