Così il vecchio continente ritrova il suo immaginario
L'influenza americana è in crisi, l’unione economica diventa unione letteraria.
N. Lagioia
"La Repubblica", 1 febbraio 2013
A quale idea sensata di cultura ci aspettiamo che l’Europa si aggrappi nella stagione in cui le sue fondamenta economiche (nonché l’idea stessa di una casa comune) sono scosse come mai era successo dal dopoguerra in poi? Come non di rado accade, preziosi indizi sono disseminati dove non ci aspetteremmo di trovarli, cioè fuori dal nostro continente. Pensieri selvaggi a Buenos Aires, l’ultimo libro di Alberto Arbasino, è uno scrigno che contiene un prezioso dialogo con Jorge Luis Borges risalente al 1977. Dopo aver ricordato Robert Louis Stevenson, il quale, giunto in California dichiarò «eccomi alla frontiera della cultura occidentale», lo scrittore argentino, incalzato da Arbasino («Ma lei si aspetta qualcosa dall’Europa?»), spiazza il lettore e forse meno l’interlocutore: «Mi aspetto tutto dall’Europa. Cosa ci si può aspettare dalla periferia? Periferia sono anche America e Russia. Noi facciamo di tutto per aiutarvi. Spero che tutto l’Occidente sia un po’ uno specchio eterno dell’Europa. Tocca a voi salvarvi, e salvarci anche».
Brandire un conservatore come Borges può sembrare un estremo tentativo di dar lustro al Vecchio Continente quando a scommetterci sono rimasti in pochi. Dirò allora che più di recente Roberto Bolaño — un trotskista che amava Pound — scrisse: «L’America Latina è stata il manicomio d’Europa come gli Stati Uniti ne sono stati la fabbrica. La fabbrica ora è in mano ai caposquadra, e i matti evasi dal manicomio sono la mano d’opera». Oltre a esprimere dolore per i figli perduti del proprio continente, nel linguaggio paradossale di Bolaño c’è la constatazione che le sfide lanciate dall’Europa risultano tutt’altro che risolte, che alcune elaborazioni sono persino insuperate ma anche in attesa di rilanci e aggiustamenti, magari proprio da chi le sviluppò per primo.
Chi paradossalmente appare riluttante a ritrovare se stesso nella cultura del continente che inventò la psicoanalisi e il romanzo moderno, che diede al cinema la libertà espressiva negata altrove dall’industria e al teatro una profondità sconosciuta su altre latitudini siamo proprio noi europei. Consapevoli e riottosi vicini di cabina sulla nave dell’euro esposta ai fortunali della crisi, quando si tratta di interrogare l’immaginario (vale a dire ciò che molto più dei differenziali tra titoli di stato dovrebbe darci forza) consideriamo Parigi e Madrid più lontane di New York, Berlino e Atene molto meno familiari di quell’antitesi della nostra idea di spazio urbano che è Los Angeles. Sappiamo tutto dell’ultima garage band di Williamsburg (Brooklyn) e siamo in grado di appassionarci ai silenzi di uno scrittore autoesiliatosi in una casa del New Mexico. Solo che poi ignoriamo che musiche si levino dalle strade di Prenzlauer Berg (Berlino), quali storie vadano immaginando i nipoti di Unamuno che passeggiano di notte sotto Casa Vicens (Barcellona), così come l’eccessiva vicinanza ci porta magari a sottovalutare le terre tra Rimini e Cesena che negli ultimi anni (quanti ne sono consapevoli?) hanno rappresentato uno dei centri di gravità del teatro di ricerca a livello mondiale.
Non c’è uscita dalla crisi senza grandi idee a ispirarla, e non c’è economia che possa fare a meno di un collante culturale. Peccato che in Europa paghiamo le suggestioni di un piano Marshall che prosegue solo nelle nostre teste. Ho l’impressione ad esempio che se il popolo tedesco avesse visto Atene con la stessa philia che noi italiani siamo educati a riservare alla Manhattan di Woody Allen, l’opinione pubblica teutonica avrebbe vissuto il tracollo della Grecia anche come una ferita propria. Per quanto assurdo, ci sono distanze inesistenti da colmare, anche perché (e qui torniamo alle preoccupazioni filiali di Borges verso un continente intimidito dal proprio immenso patrimonio) la posta in gioco è ancora molto alta. Prendiamo la letteratura. Declinato il postmoderno ed esauritasi la spinta che negli Stati Uniti fino alla fine dei Novanta produceva opere importanti come Pastorale americana, Underworld, Infinite Jest, inizia a serpeggiare la sensazione che mentre alcune recenti esperienze mostrino il fiato corto, al contrario Stephen Dedalus, Clarissa Dalloway, Gregor Samsa, Hans Castorp, Zeno Cosini continuino a interrogarci senza pietà. I capisaldi della letteratura europea novecentesca — rielaborati più di recente all’interno del continente da scrittori come Sebald, Saramago, Marías, Vila-Matas — si scoprono all’improvviso partite ancora aperte proprio perché sono tra le cuspidi di un pensiero (la tradizione europea) che solleva domande tuttora dirimenti, non solo per i destini continentali ma dell’intero occidente.
Tornare a riconoscersi in casa propria è il presupposto per dialogare con il resto del mondo. Quando Bolaño parla di Nord e Sud America come «fabbrica» e «manicomio » d’Europa mette un oceano tra cause e effetti. E quando Borges dice che tocca a noi salvare un’intera civiltà — e che a tal fine risulta relativa persino la scala delle potenze economiche — cede solo in apparenza alla provocazione. Al contrario, l’autore di Finzioni credeva fermamente che l’Europa custodisse nelle sue profondità un apparato d’elaborazione pressoché unico per dare un senso umano alle sfide gigantesche (filosofiche, politiche, estetiche, esistenziali, religiose, tecnologiche) attraverso cui abbiamo posto le basi per il funzionamento dell’intero Occidente, cioè proprio quella parte di mondo che oggi si sente quantomai incerta e spiazzata anche a livello identitario. Non c’è alcuna arroganza eurocentrica nel ritenere di poter giocare in questo un ruolo determinante. Al contrario, chiudersi nell’estasi della subalternità — nell’illusione dell’estraneità tra tasselli di uno stesso mosaico — rappresenta l’altra faccia della peggiore presunzione andata a male. Si può credere che l’Europa sia obsoleta perché sta metabolizzando con fatica i nuovi modelli di sviluppo. Una parte del ritardo può essere imputata a colpa. Ma per il resto è sacrosanto che il continente di un pensatore come Cesare Beccaria (siamo l’unica zona dello scacchiere globale in cui non c’è la pena di morte), di un riformatore come William Beveridge (nel primo mondo siamo tra i pochi a dare un senso alla parola welfare), di scrittori come Camus e Pasolini e Bernhard (nessun’area culturale ha sfornato intellettuali capaci di metterla costantemente in discussione con tanta profondità) rifletta su questi temi e faccia le proprie scelte con meno disinvoltura di altre parti del mondo.
Siamo davvero disposti a vivere in un brave new world che faccia a meno di conquiste più preziose e comunitarie di quanto vorremmo ammettere? L’Europa dell’unità economica, persino con i conti a posto, non reggerebbe a lungo il peso di questo mancato riconoscimento tra simili. Occorre molta umiltà per ricordarci cosa ci lega anche a livello culturale, poiché all’orgoglio dovrebbe poi seguire un’enorme assunzione di responsabilità, la quale tuttavia (per dare agli anni che verranno il senso e la pienezza che forse non hanno avuto in questo inizio di secolo) non è rimandabile a lungo.
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