martedì 5 febbraio 2013

Parole sconsiderate dall’antica Grecia all’oceano del web


Già Tucidide racconta la guerra “verbale” del Peloponneso
Mentre Orwell immagina in “1984” la distruzione del lessico

Pier Paolo Portinaro

“La Repubblica”, 1 febbraio 2013

La lingua salvata è il titolo della prima parte dell’autobiografia di uno dei grandi della letteratura del Novecento, Elias Canetti. Un’altra sua preziosa raccolta di saggi s’intitola La coscienza delle parole. Per chi si aggiri oggi tra le macerie della comunicazione, sembrano davvero espressioni di un mondo scomparso. Intorno a noi il chiacchiericcio, le frasi vuote, gli equilibrismi della mistificazione, le contumelie verbali, la fraudolenza retorica. Se ci disponiamo all’ascolto, abbiamo la sensazione che la lingua sia oggi un bene perduto. E che delle parole, in pubblico, spesso anche in privato, si sappia solo più fare un uso incosciente e irresponsabile.
Certo, è una vecchia storia. La politica, e soprattutto la politica democratica, che ha non nella forza e nemmeno nel denaro ma nella persuasione dei molti la sua più formidabile risorsa, è sempre stata incline alla strumentalizzazione e alla perversione del linguaggio. Democrazia e demagogia sono nate ad un parto. Ma la demagogia può conoscere diverse gradazioni. Nella sua ricostruzione storica della guerra del Peloponneso, Tucidide dedica pagine immortali alla guerra civile in Corcira: a colpirci in esse non sono tanto le descrizioni della violenza, delle epurazioni, delle brutali rese dei conti quanto la circostanza che lo storico greco sottolinei come in quella situazione di conflitto cambiò «il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti». L’audacia irresponsabile fu chiamata coraggio, il calcolo prudente delle conseguenze inerzia e viltà, l’intrigo fu ribattezzato intelligenza.
«Chi inveiva infuriato, riscuoteva sempre credito, ma chi lo contrastava, era visto con diffidenza».
Due millenni più tardi, Jeremy Bentham, l’alfiere della morale utilitarista, smascherava i sofismi della società moderna, che in guerra chiamava gloria l’uccidere, nel mondo della finanza definiva liberalità la rapina, in ambito religioso esaltava come zelo la persecuzione dei diversamente credenti. L’epilogo di questa storia di violenza esercitata sulla lingua parve poi a molti, nel Novecento, rappresentato dal totalitarismo. Orwell, in 1984, dà una vivida rappresentazione di una società in cui il Ministero della Verità lavora alla distruzione delle parole e alla produzione della “neolingua”, il cui scopo consiste nel rendere superfluo il pensiero. Ne conosciamo qualche versione caricaturale nelle nostre campagne elettorali – nelle quali la vera competizione sembra riguardare lo svuotamento del linguaggio.
Oggi, pur nell’eterno ritorno degli inveterati vizi dell’umano, c’è qualcosa di peculiare nell’uso sconsiderato della lingua. Sarà che la capacità di manipolazione delle menti e delle credenze insita nella Rete, le tecniche di persuasione che operano attraverso i siti web, i cellulari, i videogiochi (su cui qualche studioso sta imbastendo un’improbabile nuova scienza, la “captologia”) stanno provocando una mutazione antropologica. La deformazione della lingua conduce alla confusione delle menti. Ma la civiltà dei diritti può convivere con una demagogia confusionaria? Direi di no, la democrazia costituzionale nell’età della globalizzazione richiede, come non mai, idee chiare, lessici condivisi e parole traducibili. 
Siamo prigionieri di strani paradossi. Viviamo in una società del sapere, che sta alimentando al suo interno l’analfabetismo funzionale; e in una società della comunicazione, che inflazionando senza filtri i flussi informativi sta erodendo le basi del dialogo e dell’intesa. Sappiamo che ogni atto linguistico avanza specifiche pretese di validità: di comprensibilità (dobbiamo poter capire), di verità (deve avere rispondenza nella realtà), di sincerità (l’intenzione deve essere rivolta all’intesa), di correttezza normativa (si deve fondare sulla condivisione di un orizzonte di valori). Tutto ciò si sta sgretolando. Resta un serbatoio melmoso di parole, da cui ciascuno trae quanto torna comodo nell’occasione contingente. Assistiamo a una competizione elettorale in cui troppi atteggiamenti sembrano suggeriti dal copione di una batracomiomachia di comici esasperati. In questo almeno politica e antipolitica sono alleate – nel distruggere con la lingua una risorsa profonda del legame sociale. 

L’autore è ordinario di Filosofia politica all’Università di Torino 

Nessun commento:

Posta un commento