domenica 3 febbraio 2013

Siamo tutti un po' egiziani


La terra dove apparve il primo Stato organizzato ha sempre sedotto e assimilato i suoi conquistatori

Cecilia Zecchinelli

"Corriere della Sera",  3 febbraio 2013

«I suoi cieli imbottiti di placida polvere d'oro, l'immobile andare delle dune gialle, gli alti triangoli imperativi delle Piramidi e le palme serene che benedicono il grasso padre Nilo…». Frasi sorprendenti scoprendo che a scriverle fu Marinetti, padre del Futurismo e nemico di ogni «passatismo», archeologia compresa. Tornato nel 1930 nella natale Alessandria, anche lui cadde (o ricadde) nel Fascino dell'Egitto, come Mondadori titolò il reportage. Non fu, e non è, il solo. Se ora il Paese evoca caos politico e violenza, se è oggetto di analisi che spesso lo riducono a luogo di scontro tra Islam e laicità, l'importanza di questa terra e l'attrazione da essa esercitata hanno resistito ai millenni. In quello che gli arabi chiamano Mashreq o Levante, e noi Vicino Oriente, nel Mediterraneo e oltre questi confini, l'Egitto ha sempre occupato un posto speciale. E non tanto per le palme o le dune, non solo per le Piramidi.
All'inizio di tutto fu il Nilo, che per gli egiziani ancora oggi è al bahr, il mare, nonostante la piena annuale che per mesi inondava ogni cosa sia oggi un ricordo lontano. Evento unico, sorprendente, rituale (la prima ondata era una lacrima di Iside, Dea Madre per eccellenza), che rese necessario un forte potere centrale per piegare quell'acqua ai bisogni dell'uomo. Fu così che nel 3150 a.C. qui nacque il primo Stato unificato, che si svilupparono più che altrove le scienze e le arti, un pensiero religioso orientato al monoteismo. Dalla Libia alla Siria di oggi, l'impero dei Faraoni si estese politicamente ma la sua influenza culturale fu più vasta: mercanti fenici, pirati dell'Egeo, mercenari greci ne divulgarono le meraviglie. Nel 450 a.C., quando era sotto i persiani, Erodoto lo visitò e fu incantato. Poi vennero altri invasori: greci, romani, bizantini. Ognuno lasciò qualche segno, anche negativo, come il rogo della biblioteca d'Alessandria con i romani o l'abbandono definitivo dell'antica scrittura quando Teodosio I impose il cristianesimo e la fine dei riti pagani. Ma l'Egitto ogni volta resisteva, si piegava ma conservava un'anima distinta, assimilando piuttosto che venir assimilato. Un esempio? Il grande Iskàndar, Alessandro il Macedone, che fondò la sua città alla fine del Delta e nel remoto deserto di Siwa, dall'oracolo seppe di esser figlio di Amon, supremo dio egizio.
Lo stesso avvenne con l'arrivo degli arabi nel 640, l'evento più incisivo. Negli ultimi 14 secoli molti uomini chiave venivano da lontano. Ma qui arrivati si piegarono al Paese, ne presero la cultura. Successe alla dinastia illuminata dei Fatimidi, gli sciiti venuti dalla Tunisia e dominanti per un secolo anche in Sicilia; al grande curdo siriano Saladino; a Baibars l'ex schiavo turco, primo sultano mamelucco. Accadde a Mohammad Ali, il khedivè riformatore che a inizio Ottocento fondò lo Stato moderno: più egiziano di molti egiziani, era nato in Albania.
Ma l'Egitto attira ed emana. I suoi figli di oggi, discendenti dagli antichi camiti (solo il 5% ha antenati arabi) trasmettono tendenze, pensieri. Ispirano l'intero mondo arabo-musulmano fino alle comunità di immigrati in quell'Europa che, chiusa la fase orientalista apertasi nel XVII secolo (l'incanto per le Mille e una notte, le scoperte e i saccheggi archeologici, l'omaggio di Napoleone con la Description de l'Égypte), ora più che subirne il fascino li guarda con sgomento e spesso con sufficienza. Giustificati, certo: il Paese è nel caos, il ristagno destinato a durare, perfino la mitica Alessandria cosmopolita di Marinetti (e Ungaretti, Kavafis, Durrell) non esiste più.
Eppure è in Egitto che sono nate le due grandi utopie arabe moderne: il panarabismo e l'Islam politico. Gamal Abdel Nasser è stato il leader della regione più amato, nonostante la sconfitta del 1967 e il partito unico. Il suo sogno di un mondo arabo unito è svanito, ma ha lasciato un germoglio: tra i giovani di oggi, quelli di Tahrir in prima fila, l'idea di un'unione dei popoli, non dei governi, è stata un fil rouge delle primavere arabe, i social network l'hanno resa possibile se non (ancora?) vittoriosa. Più fortunata pare la sorte del pensiero della Fratellanza musulmana, nata a Ismailiya 84 anni fa e ora al potere dal Cairo a Tunisi, fortissima ovunque e ispiratrice, nelle sue deviazioni, perfino di Al Qaeda.
Nella teologia, che in terra d'Islam ha un peso enorme, in Egitto non c'è solo Al Azhar, eterna guida dell'ortodossia sunnita. C'è Nasr Abu Zaid, il maggiore esegeta liberale del Corano, condannato come apostata e scomparso nel 2010, ma ancora maestro di migliaia di musulmani. Ed Egitto significa femminismo arabo, nato al Cairo cento anni fa, di cui simbolo non dimenticato fu il gesto con cui Hoda Shaarawi, nel 1923, si tolse in pubblico il velo. Oggi, nella galassia delle attiviste arabe, la veterana è ancora un'egiziana, Nawal Saadawi.
Nella cultura sono tantissimi gli egiziani eccellenti. Nagib Mahfouz, unico letterato arabo a vincere il Nobel, ha lasciato eredi come Gamal Ghitani o il più internazionale Alaa Al Aswani. Il cinema arabo è stato a lungo sinonimo di Egitto, con i registi dell'età dell'oro come Shadi Abdel Salam e Yusuf Shahin, e oggi mantiene il primato. Lo stesso per la musica: «nessuno eguaglierà mai l'eccelsa Umm Kalthum» (parole di Mahfuz), il cui feretro nel 1975 fu seguito da quattro milioni di egiziani per le vie del Cairo e la cui voce risuona ancora dalla Striscia di Gaza alle banlieu di Parigi. Ma tra le star attuali gran parte è egiziana, a partire da Amr Diab. E poi la tv, la danza (del ventre), il teatro, l'arte in generale. Diffusi grazie ai satelliti e alla Rete: l'unico «dialetto» compreso da Rabat a Bagdad è ancora l'egiziano.
«In realtà l'Egitto non è più l'indiscusso motore culturale arabo, dagli anni 80 molti Paesi hanno sviluppato una loro produzione seppur spesso rivolta al consumo locale», dice Andrew Hammond, da 20 anni in Medio Oriente, autore di Pop Culture: Arab World. «Ora è in primo piano il Golfo, ma non tanto con una produzione autoctona, piuttosto come facilitatore di quella degli altri Paesi. Artisti, registi, creativi vanno a Dubai o in Qatar, sedi dei grandi network come Al Jazeera, dei grandi e ricchissimi musei».
Nell'era del «glocal» e con la rivoluzione incompiuta la tradizionale affermazione degli egiziani che il loro Paese sia la «madre del mondo» crea dubbi, in effetti, perfino sul Nilo. Ma di fasi buie l'Egitto ne ha già viste tante, molti «Faraoni» sono emersi e caduti. E la convinzione generale, o almeno la speranza, è che sia solo questione di tempo.

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