Laing la scoprì nel 1826. Non tornò mai indietro
Elisabetta Rosaspina
"Corriere della Sera - La Lettura", 10 febbraio 2013
Non si era più visto un uomo bianco da quasi quattro secoli, a Timbuctù, quel 13 agosto del 1826, quando arrivò, alla testa di una piccola carovana di cinque cammelli, lo scozzese Alexander Gordon Laing. Giovane, biondo, esausto, ferito in un attacco dei Tuareg lungo la strada, ma felice: aveva vinto la corsa del secolo. Dalla metà del '400, cioè dai tempi del cronista viaggiatore fiorentino Benedetto Dei, Laing era il primo europeo a raggiungere «la capitale dell'oro» africana, la città perduta di cui tutti parlavano, in Occidente, e che nessuno aveva visto, così da far dubitare a molti perfino della sua esistenza. In tredici logoranti mesi, l'irriducibile esploratore aveva attraversato il Sahara da nord a sud, aprendo una rotta inedita; aveva preceduto i francesi, ma anche agguerriti connazionali, come Hugh Clapperton, lo scopritore del lago Ciad, scatenati dal governo di Londra per avere più «cavalli» sui quali puntare nell'affannata competizione con Parigi. Più possibilità che qualcuno fra loro sopravvivesse alla febbre, alla dissenteria, agli agguati dei guerrieri indigeni, ai tradimenti degli infidi uomini di scorta.
Davanti agli occhi del bell'ufficiale britannico si schiudevano finalmente i segreti meglio conservati del continente nero: probabilmente Timbuctù non si rivelò proprio quello scrigno di incalcolabili ricchezze decantato dalle leggende nei secoli precedenti, ma non deluse l'ambizioso Laing che la trovò «rispondente alle sue attese, in tutto fuorché nelle dimensioni». Era arrivato, e lo sapeva, al cuore della più fornita, enciclopedica «biblioteca di sabbia» al mondo: una miniera non di oro o diamanti, ma di centinaia di migliaia di manoscritti arabo-islamici, risalenti fino al XIII secolo. E, già allora, esposti alle razzie e alle devastazioni che hanno rischiato di disperderli per sempre, l'ultima volta, poche settimane fa.
Laing guardava avanti, e sperava soprattutto di aver trovato la porta d'accesso alla scoperta che avrebbe consegnato il suo nome alla Storia: l'introvabile foce del fiume Niger. Quel delta misterioso che nemmeno il pioniere Mungo Park era riuscito a scovare, nonostante l'alto prezzo di uomini e mezzi immolati nella ricerca attraverso l'Africa occidentale.
Timbuctù. Mai gloriarsi di aver conquistato Timbuctù. Affascinante e feroce, come un fiore carnivoro, non avrebbe permesso facilmente a un forestiero di tornare indietro a vantarsi d'averla espugnata. Tantomeno a un cristiano. Tantomeno a un europeo. Ma il bando di concorso aperto dalla Società geografica di Parigi era categorico: per assicurarsi il premio di 10 mila franchi e legare indissolubilmente la propria fama all'atlantide africana occorreva un dettagliato resoconto del viaggio. Insomma, occorreva uscirne vivi, per poter descrivere agli accademici compatrioti il porto fluviale da cui sgorgavano i tesori esportati dai Berberi e che aveva incantato il geografo arabo Leone l'Africano, nel XVI secolo.
Analoga condizione aveva posto Hanmer Warrington, console britannico a Tripoli, Libia, nel luglio del 1825, quando il giovane maggiore scozzese era diventato, sulla carta, suo genero. Era stato lo stesso, potente diplomatico a celebrare le nozze della figlia Emma, che Alexander aveva conosciuto durante i sei mesi di preparativi della sua spedizione all'altro capo del deserto. Fu vero amore, immediato e travolgente. Ma era destinato a rimanere platonico — stabilì il console, inesorabile — fino al rientro del maggiore Laing dalla sua missione, che iniziò appena 48 ore dopo le nozze e sarebbe durata almeno un anno. Scriveva regolarmente al suocero, riservando sempre qualche riga per Emma, e affidava le sue missive a ogni possibile messaggero che si accingesse ad attraversare il Sahara verso Tripoli. Quelle lettere sono l'unica testimonianza della sua impresa. Perché del suo diario, dei suoi schizzi, delle notizie raccolte per quello che sarebbe stato un bestseller al suo ritorno a Londra, non esiste più traccia.
Il 26 settembre del 1826, a poco più di un mese dal suo ingresso a Timbuctù, il valoroso scozzese, carico di appunti, era certamente sulla via del ritorno, in fuga dalla minaccia che gli alitava sul collo: Sheku Hamadu Lobbo, sanguinario jihadista del tempo. Lo sceicco, che controllava la regione dal Volta Nero (ora nel Burkina Faso) fino a Timbuctù, voleva morto l'impudente «europeo» prima che riguadagnasse Tripoli. Prima che tornasse tra i suoi simili a raccontare ciò che aveva visto, invogliando altri «infedeli» a seguirne le orme e a contaminare le terre musulmane. «Non ho tempo ora di riferirvi di Timbuctù — scrisse Laing nella sua ultima epistola, datata 21 settembre 1826, annunciando il suo precipitoso rientro — ma posso affermare che sotto ogni aspetto, eccetto la misura (che non eccede le quattro miglia di circonferenza) ha completamente incontrato le mie aspettative». E alimentava quelle del suo corrispondente: «Sono stato occupato durante la mia permanenza a cercare documenti nella città, che sono abbondanti, e nell'acquisire informazioni di ogni genere». La sua perseveranza, concludeva, era stata premiata. Le sue convinzioni sul corso del Niger ne uscivano rafforzate. Ma si rammaricava di aver trascurato la sua sposa, in quelle settimane: «La mia adorata Emma deve scusarmi: ho iniziato centinaia di lettere per lei, ma non sono stato in grado di finirne una sola. È sempre in cima ai miei pensieri e non vedo l'ora, con delizia, del nostro incontro che, a Dio piacendo, non è ormai molto lontano».
Sgozzato, strangolato, accoltellato nel sonno: nessuno saprà mai come morì Alexander Gordon Laing. Ma fu probabilmente in una notte di fine settembre che Emma Warrington divenne vedova prima di essere stata moglie. Ignara, il 10 novembre successivo, scriveva ancora al marito appassionate pagine d'amore che lui non avrebbe mai letto. E quando le giunse l'ultimo manoscritto di Laing, i resti dello sfortunato maggiore erano già sepolti da un pezzo. Forse proprio sotto l'albero del villaggio di Sahab, 50 chilometri a nord di Timbuctù, dove nel 1910, l'esploratore Albert Bonnel de Mézières, su indicazione di un arabo ottuagenario, trovò effettivamente due scheletri. Appartenevano davvero a Gordon Laing e a uno dei suoi servitori? Non fu mai appurato.
La ricostruzione fatta quasi un secolo dopo contrastava con le testimonianze coeve e con le informazioni raccolte sul posto, 19 mesi dopo la scomparsa del maggiore, dal francese Auguste René Caillé, che riuscì rocambolescamente ad andare e tornare da Timbuctù, sotto mentite spoglie musulmane, assicurandosi la ricca ricompensa di Parigi e la gloria. I britannici mal digerirono la sconfitta e sospettarono il barone Joseph-Louis Rousseau, potente console francese a Tripoli, di aver complottato contro Laing, e di essersi addirittura impossessato delle carte e dei libri trafugati dagli assassini. Ne seguirono anni di accuse e di indagini, ma la «perla del deserto» era ormai destinata ai francesi, il cui esercito sarebbe entrato a Timbuctù, per la prima volta, nel 1892, pur pagando agli avi degli attuali Tuareg un enorme tributo di sangue.
Ed Emma Warrington? Convinta dal padre a risposarsi con il vice console britannico a Bengasi, seguì il nuovo marito in Italia e morì a Pisa sei mesi più tardi, il 2 ottobre 1829. Assieme alla speranza di ricevere un'altra lettera del maggiore Laing.
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