martedì 12 febbraio 2013

Felici quanto basta


In un libro l’economista critica la cultura materialista del consumo
Cosa porta anche i benestanti a non accontentarsi di ciò che hanno
Skidelsky: “Il denaro ci nasconde il segreto della buona vita”

intervista di Federico Rampini

"La Repubblica", 11 febbraio 2013

NEW YORK Lord Robert Skidelsky, grande storico inglese dell’economia, biografo di John Maynard Keynes, è una delle massime autorità sul pensiero che “salvò il mondo” dalla Grande Depressione degli anni Trenta. Suo figlio Edward è un filosofo. Hanno unito le loro intelligenze, e le loro discipline, per trovare una risposta alla crisi che vada “oltre” l’economia in senso stretto. Il loro saggio Quanto è abbastanza che esce oggi in Italia (Mondadori, 306 pagine) prende spunto proprio da una riflessione di Keynes sui valori di una società post-industriale. In una conferenza del 1928, poi trasformata in un pamphlet nel 1930 (Possibilità economiche per i nostri nipoti pubblicato in Italia da Adelphi), Keynes dipinse un affresco visionario del futuro. Alcune delle sue profezie si sono avverate: l’immensa moltiplicazione di ricchezza. Altre no: non abbiamo usato il progresso tecnologico per ridurre drasticamente il tempo di lavoro e allargare a dismisura la sfera delle nostre attività culturali, artistiche, filantropiche. Al contrario di quanto auspicava Keynes, siamo immersi in un sistema iper-materialistico; anche coloro che hanno un tenore di vita benestante non si accontentano. L’incapacità di riconoscere quando “abbiamo abbastanza” è una malattia diffusa. È anche un limite della scienza economica, che non sembra avere nulla da dire in proposito. In questa intervista Skidelsky padre spiega il senso di una ricerca: l’aspirazione a una “buona vita”, la rifondazione dell’economia su basi etiche, per una crescita più sana e sostenibile.

Nella ricerca della “buona vita” vi ispiriate ad Aristotele, Kant, Marcuse, Bertand Russell. La scienza economica da sola è troppo angusta?
«Bisogna chiedere aiuto alla filosofia perché l’economia non ha molto da dirci su cosa costituisce una buona vita. L’economia è diventata una “disciplina del processo”, nel senso che si occupa dei mezzi e non dei fini. Si è basata sempre di più su un approccio metodologico che dà per scontato l’individualismo».

La grande crisi iniziata nel 2008, e da cui l’Europa ancora non è uscita, può servire almeno a renderci più saggi? Cambierà la gerarchia delle priorità che hanno guidato i nostri modelli di sviluppo?
«Qualche segnale positivo c’è. E un dubbio: che il rinsavimento sia solo temporaneo? Finiremo per uscire dalla recessione. Quando la macchina dell’economia si rimetterà in moto possiamo facilmente dimenticare le lezioni imparate nei tempi duri. Questo vale sia per gli individui sia per la società nel suo insieme. Le crisi scatenano un processo d’introspezione, ci costringono a guardare dentro noi stessi, personalmente e come comunità. Finché durano, è importante che ciascuno di noi contribuisca a questa riflessione autocritica, e poi che cerchi di renderla duratura».

Nel mondo anglosassone il vostro saggio ha suscitato già forti reazioni. Tra le voci critiche, alcuni vi accusano di avere una vizione “patrizia”, élitaria. La vostra società ideale che esalta il tempo libero, i consumi culturali, la creazione artistica, sembra distante dai bisogni di milioni di disoccupati in Occidente; o dalle aspirazioni di un miliardo di contadini cinesi e indiani.
«Questa è una critica superficiale. Noi ci troviamo per la prima volta nella storia umana davanti a questa possibilità: di vivere in un sistema che crea abbastanza ricchezza per tutti. È già una realtà nelle nazioni sviluppate dell’Occidente. Nel passato la ricchezza era riservata a minoranze; le società erano statiche; dei gruppi ristretti “scremavano” il surplus a loro vantaggio e così svilupparono uno stile di vita privilegiato dove c’era spazio per le attività creative del tempo libero. Oggi stiamo raggiungendo una situazione in cui quello stile di vita è alla portata di una parte crescente della popolazione. Quell’ideale di una “vita civile” un tempo era riservato agli aristocratici e ai ricchi. Gli stessi filosofi del passato quando disegnavano i loro modelli di una buona vita, si rivolgevano a delle minoranze. Ora che l’ideale può interessare una maggioranza tra noi, è il momento di estrarre dalle riflessioni del passato i valori di una buona vita».

Un’altra obiezione attacca il concetto di “abbastanza”. Come dimostra il comportamento dei signori della finanza, o altre oligarchie di straricchi, molti ritengono di non avere mai “abbastanza” denaro.
«Questo è il cinismo di chi vede l’essere umano come immutabile, dunque considera l’avidità e l’insaziabilità come tratti di natura. Ma in passato questi difetti furono affrontati attraverso delle limitazioni morali. Abbiamo bisogno di una morale proprio perché la natura umana non è perfetta, e tuttavia può essere trasformata, controllata».

Una critica differente: un eccesso di tempo libero verrebbe riempito con passatempi oziosi, volgari, degradanti, come la tv spazzatura, l’alcolismo e le droghe.
«Questo sì è un atteggiamento élitario, che tradisce disprezzo per la maggioranza della popolazione. Anche le élite di una volta erano soggette a queste tentazioni, eppure molti di loro impararono con il tempo a fare un uso nobile e creativo del tempo libero».

Un’obiezione pragmatica: l’arte e la cultura costano. Se fossi povero, potrei permettermi di andare al Metropolitan Opera? Questo darebbe ragione ai fanatici dello sviluppo: dobbiamo produrre sempre di più, per poterci permettere quei consumi sofisticati che ci appagano…
«Un biglietto dell’Opera costa sempre meno di tanti gadget tecnologici. Questa è una veduta diffusa in America: devi lavorare sempre di più per poterti permettere tutti quei gadget che l’industria ti vuol vendere. Alla fine lavori così tanto che non ti resta tempo per pensare a te stesso, e vivere una buona vita. Hai una vita riempita solo da oggetti. Quel che resta del tuo tempo libero è ad alta intensità di consumo. Ma non è obbligatorio subire questo modello. Bisogna ripensare il tempo libero, reimparare a godersi la vita. E non ce l’ho con tutti i gadget. Mi piace il Kindle, che serve a leggere…».

Due grandi nazioni occidentali sono già governate da leader di sinistra: l’America e la Francia. Barack Obama e François Hollande sono più “keynesiani” rispetto ai conservatori al potere in altri paesi. Le sembrano all’altezza della sfida che descrivete in questo libro? Nelle loro agende di governo c’è spazio per una nuova gerarchia di valori?
«Per quanto riguarda Hollande in Francia, è presto per dare un giudizio. Non ha ancora mostrato molto, spero che lo faccia. Obama capisce bene questi temi. Ha avuto una priorità: tirare fuori gli Stati Uniti dalla recessione, ridurre la disoccupazione, perseguire una distribuzione del reddito più equa. Era giusto che pensasse prima a quello. In quanto ai democratici americani nel loro insieme, saranno capaci di sviluppare una visione meno materialistica per il futuro del loro paese? Questo ci riconduce a un dibattito che avvenne già negli anni Cinquanta e Sessanta. Fu quello il primo periodo in cui l’America intuì che avrebbe potuto avere “abbastanza”. Una grande riflessione, un classico, fu il saggio di John Kenneth Galbraith La società opulenta. Si pose proprio questo problema: cosa c’è oltre l’opulenza? Dopo di allora quel filone di pensiero non è diventato maggioritario. La discussione si è fermata, con l’eccezione degli ambientalisti e dei teorici della decrescita, che comunque rimasero ai margini. Ora è venuto il momento di riprendere».

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