sabato 9 febbraio 2013

I manoscritti salvati dagli «angeli» di Timbuctù


Michele Farina

"Corriere della Sera",  5 febbraio 2013

Non è facile nascondere ottomila volumi, specie con gli zeloti di Al Qaeda alle porte. Bisogna avere nelle vene l'abitudine alle invasioni, sangue freddo e parecchi sacchi di tela. Così Ali Imam Ben Essayouti ha salvato un tesoro di manoscritti risalenti al quattordicesimo secolo. L'esperienza gli dice che è presto per riaprire le casse dove per un anno ha tenuto i libri, nel buio di qualche stanza sotterranea. Certo Timbuctù è salva, e con i liberatori francesi è volata in città anche la capa dell'Unesco, Irina Bokova, a promettere aiuto. I mausolei distrutti «saranno ricostruiti». Quanto alle antiche biblioteche, date per perdute, la buona notizia è che si sono salvate quasi tutte. Il merito va alle famiglie che le custodiscono da secoli. E che anche questa volta hanno beffato gli invasori.
Quando sono arrivati i miliziani barbuti di Ansar Dine e molti abitanti avevano già fatto le valigie, Konatè Alpha pensava ai suoi tremila libri. Ha indetto una riunione di famiglia, così ha raccontato al New York Times, con i fratelli e l'anziano padre: «Dobbiamo nascondere i manoscritti». Trasportarli lontano no: sono documenti delicati, più fragili delle Thanka tibetane (composizioni ricamate su lino e seta) che i monaci si portavano dietro e che costituiscono oggi uno dei pochi tesori artistici salvati dalle distruzioni cinesi. Meglio ricorrere ai rifugi della vecchia Timbuctù. La famiglia di Konatè ha trovato manoscritti nascosti all'interno di un muro dai precedenti proprietari: «Nascosti così bene che se li erano dimenticati lì».
Leggenda vuole che gli aztechi seppellirono i loro ori vicino a un lago al ritorno dei vendicativi spagnoli di Cortés, senza poi riuscire a ritrovarli (un sindaco di Città del Messico in anni recenti ha fatto persino dragare il lago invano). Konatè, come altri bibliotecari, ha messo i manoscritti in un rifugio collaudato, entro le mura domestiche o nel vicino deserto. I miliziani di Al Qaeda non sono passati casa per casa. Sono andati alla biblioteca più importante, l'Ahmed Baba Institute, allestita grazie a fondi esteri. I funzionari li hanno convinti che era un'istituzione islamica. Un capo fondamentalista ha dato la sua parola e il suo numero di cellulare: «Se qualcuno vi dà noia chiamatemi». Ma il direttore, Abdoulaye Cissé, non si è fidato. E ha deciso di spostare i manoscritti alla chetichella, cassa dopo cassa, giorno per giorno, piccoli viaggi per non destare sospetti. Ha spedito i volumi nelle zone governative. E ha fatto bene: i miliziani in ritirata hanno assaltato la biblioteca bruciando quanto trovavano. «Grazie a Dio solo il 5% del materiale è andato perduto».
Il valore storico è inestimabile. «I libri di Timbuctù parlano di tutto quanto c'è sotto il sole», dice Essayouti. Dalla Mauritania al Sudan, le biblioteche del deserto (spesso private) hanno sconfitto il tempo: libri religiosi, poesia, traduzioni di testi greci, trattati scientifici che fanno sorridere per la loro arretratezza ma sono testimonianza di una cultura globale che ha resistito a invasioni, sabbia e insetti. Un patrimonio preservato grazie allo sforzo o all'arguzia di singoli individui. In Mali e altrove. Al Museo Nazionale dell'Iraq si racconta che durante il caos della caduta di Bagdad alcuni dipendenti portarono a casa statuette e oggetti preziosi per la durata dei saccheggi. Come sono sopravvissute le collezioni del Museo Nazionale di Kabul alla furia iconoclasta dei talebani? Il direttore Omar Massoudi escogitò un singolare sistema antifurto per un bunker segreto nel Palazzo Presidenziale. Per aprirlo ci volevano sette chiavi. Ogni chiave fu data in custodia a una persona diversa, rendendo così più difficile il saccheggio. Un metodo che potrebbe servire ai bibliotecari di Timbuctù, alla prossima invasione.

Vedi  il precedente articolo I libri d'oro di Timbuctù.

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