L’ultimo film di Margarethe von Trotta dedicato alla filosofa
si concentra sul processo a Eichmann e la nascita della «Banalità del male»
Gherardo Ugolini
"L'Unità", 23 febbraio 2013
FA DISCUTERE «HANNAH ARENDT», L’ULTIMO FILM DI MARGARETHE VON TROTTA, DA POCO USCITO NEI CINEMA DELLA GERMANIA.
La regista conclude con questa pellicola una sorta di «trilogia al femminile» su grandi donne della storia tedesca, i cui primi due capitoli erano dedicati rispettivamente a Rosa Luxemburg (film Rosa L. del 1985) e alla monaca medievale Ildegarda di Bingen (Vision del 2009). Girare un film su un filosofo ricostruendone biografia e pensiero non è per nulla facile; si rischia nella migliore delle ipotesi di produrre un documentario, e nella peggiore una fiction noiosa e inguardabile. Margarethe Von Trotta ha evitato entrambe le cose, sfornando una pellicola fresca e ricca di tensione dalla prima all’ultima sequenza. Merito anche del soggetto, visto che Hannah ha avuto una vita quanto mai interessante, dalla giovinezza trascorsa tra Königsberg e Berlino fino all’esilio americano. In mezzo l’approdo a Marburgo dove andò appositamente per studiare filosofia con Martin Heidegger, il legame sentimentale col grande pensatore, poi il trasferimento a Heidelberg dove si addottorò con Karl Jaspers, l’espatrio a Parigi in seguito all’avvento del nazismo e dopo l’occupazione tedesca della Francia la prigionia in un campo di raccolta e da lì la rocambolesca fuga negli Stati Uniti, dove Arendt cominciò una nuova esistenza lavorando come docente in alcune università americane. Senza contare le polemiche suscitate dalle sue principali pubblicazioni, a partire dallo studio sulle Origini del totalitarismo del 1951 in cui tracciava un rischioso parallelismo tra dittatura nazista e staliniana.
Ebbene, Margarethe von Trotta, che sul suo personaggio si è documentata accuratamente leggendo biografie e parlando con testimoni diretti, ha scelto di concentrarsi su un solo segmento del percorso biografico di Hannah, un segmento breve ma decisivo, ovvero gli anni tra il 1960 e il 1964. L’evento fondamentale di quel periodo, che assorbì interamente le passioni e le energie della filosofa, fu il processo contro Adolf Eichmann, l’architetto dell’Olocausto che dopo la guerra era riuscito a trovare riparo in Argentina, ma che nel 1960 fu sequestrato dal Mossad e portato in Israele. Arendt seguì da cronista il processo a Gerusalemme raccontando le sue impressioni in una serie di reportage per il giornale The New Yorker e raccogliendo poi il materiale nel pamphlet La banalità del male, destinato a diventare celebre.
Interpretata da una bravissima Barbara Sukowa, attrice prediletta della regista, la Arendt che vediamo sullo schermo fisicamente non assomiglia molto a quella storica, ma ne riproduce perfettamente lo stile comunicativo, la tempra ostinata fino a sfiorare l’arroganza, l’arrovellarsi continuo della mente, l’umorismo sottile. La si vede protagonista, insieme col marito, il poeta Heinrich Blücher, della scena intellettual-mondana newyorkese, in particolare nei circoli dell’emigrazione ebraico-tedesca; la si vede nelle aule universitarie in cui dibatte coi suoi studenti in inglese con forte accento tedesco e con la sigaretta sempre accesa. Se la relazione giovanile con Heidegger viene solo rievocata attraverso rapidi flashback, al centro del film c’è costantemente la questione del nazismo e del suo significato. È evidente che il processo Eichmann di cui sono anche mostrati spezzoni reali rappresentò per la filosofa una specie di resa dei conti con la storia e con la propria esistenza.
Pensava di trovarsi davanti un mostro bestiale e invece scoprì che Eichmann era un normale e grigio burocrate che aveva architettato deportazioni e massacri eseguendo gli ordini ricevuti e senza neppure pensare a quello che faceva. Non agiva per odio o per cattiveria, ma solo per obbedienza e senza domandarsi mai se ciò che faceva era bene o male. Nacque da lì la teoria della «banalità del male», ovvero l’idea che in un contesto totalitario si verifichi nell’individuo una scissione totale tra pensiero e morale, fino al compimento di crimini atroci senza rendersene conto. Ma all’epoca quell’interpretazione non fu per nulla compresa. Anzi, Arendt si attirò veleni e inimicizie, soprattutto da parte delle comunità ebraiche, di cui pure faceva parte. Fu accusata di giustificazionismo nei confronti del nazismo, ricevette minacce pesanti e rischiò perfino di essere sospesa dall’insegnamento. Destarono scandalo in particolare le sue osservazioni sulla «passività» degli ebrei di fronte alla Shoah.
Non era facile, ma con Hannah Arend la regista di Anni di piombo e di Rosenstrasse è riuscita non solo a consegnarci un prezioso ritratto di colei che è considerata la più acuta pensatrice del secolo scorso, ma anche a toccare un nervo scoperto della storia tedesca, senza sbavature retoriche e senza ideologismi precostituiti.
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