L’importanza dell’utopia per “dare luogo” a ciò che non ha ancora
trovato posto nella società: la lezione di Ossola a Biennale Democrazia
CARLO OSSOLA
"La Stampa", 12 aprile 2013
Tenere alta la mira, o approssimarsi al possibile sono, ancor oggi, modi di leggere la nostra società; dipende - quando si voglia scegliere l’uno o l’altro - da ciò che si vuol ottenere. Per il tema che ci trattiene oggi, e ci coinvolge come cittadini, dovremmo porci lo stesso problema che delinea Italo Calvino nella Giornata di uno scrutatore: e cioè «come rimediare all’imperfezione» che è propria di ciascuno e della società nel suo insieme; in effetti siamo tutti «insufficienti». Nel ripercorrere le risposte storiche al problema, Calvino si sofferma sulla tesi della «società suppletiva»: immaginare - come teorizzò il marxismo - che sia possibile una società così vigile, così capace di vegliare e prevenire, che anche un cieco possa vedere con gli occhi di tutti. Ma alla fine dell’esame Amerigo Ormea deve riconoscere (oltre allo scacco storico delle società del «socialismo reale») che «essere nel giusto è troppo poco».
Dobbiamo partire di qui: la giustizia, se anche ci fosse, sarebbe insufficiente a colmare i nostri limiti: ecco dunque il compito dell’utopia. Essa, intanto, va pensata come «riserva di senso» che le civiltà hanno cumulato nella loro storia: basti riflettere - in tempo di megalopoli - alla lunga centralità civile dello spazio pubblico: dall’agorà greca ai tanti Palazzi della Ragione che si ergono nella piazza centrale di molti dei nostri comuni di origine medievale. Questa centralità e dignità dello spazio pubblico s’associa alla dignità della parola pubblica, che va lanciata - direbbe Paul Celan - «a Nord del futuro», per nuovi mondi, e non in faccia all’interlocutore come alterco, insulto, offesa.
Questo è il nostro engagement: alla lettera «darsi in pegno», farsi pegno, d’avvenire (da advenio,advena, forestiero): colui che ci viene incontro, che bussa alla porta, è il nostro avvenire.
L’utopia dunque non va pensata come modello (che alla fine costringe: Wisława Szymborska ha scritto una memorabile poesia sulle utopie realizzate che sono come isole di sabbia ove molteplici piedi fuggono verso la riva) ma come «supplemento» di spazio: «dar luogo» appunto a ciò e a chi non ha ancora trovato posto, nella società. Alla crisi non si risponde con la coscienza della crisi (tautologia), ma con la coscienza dei valori: è il cieco, nel racconto La cattedrale di Raymond Carver, che alla fine prende la mano al vedente che deve spiegargli le nervature della possente opera e non sa come nominare la varietà di arcate e volte; è il cieco - che sa che cos’è un’aspirazione all’alto - a disegnare perfettamente quello che l’altro goffamente balbetta per cenni).
L’utopia è la tensione costante non già verso il possibile fornito dal contingente, ma verso l’incompiuto di cui pure sappiamo bene le regole del compimento: la società è un’immensa fabbrica a cielo aperto che costruisce per arrivare a «riunire a tenda» tutti coloro che vi mettono mano, o semplicemente vi si rifugiano, come ancora si esprime Paul Celan. Dobbiamo pensare progetti dei quali, realizzandoli, si possa sempre dire -con Vladimir Jankélévitch - che il loro punto finale è «quelque part dans l’inachévé».
Si dice che u-topia sia il «non-luogo» precisamente perché non può aver luogo, realizzarsi: in verità Marc Augé ha ben mostrato che i «non-luoghi» sono altri, quelli tutti identici (dagli aeroporti agli ingressi in città, marcati ormai dappertutto dai villaggi commerciali, etc.) che ci rendono anonimi e alieni soggetti di spesa. Utopia è il «luogo-non» riconosciuto, che non si vede perché non lo frequentiamo più o non ci lasciamo frequentare: e immense banlieues, fisiche e morali, che assediano la nostra tranquillità.
Proprio in questi giorni appare in Francia un bel libro di Mireille Delmas-Marty, teorica dell’internalizzazione del diritto, Le travail à l’heure de la mondialisation (Bayard). È il frutto delle lezioni che, con il Collège de France, ha tenuto in un liceo di Aubervilliers, la più povera delle periferie parigine, là dove qualche giorno fa sono bruciati quattro egiziani sans papiers nel loro appartamento incendiato per vendetta. Il capitolo finale di questo teso e robusto saggio ha per titolo «L’utopie d’humaniser la mondialisation»: le proposte, non solo giuridiche, che avanza partono tuttavia da un vissuto condiviso; una parola per essere autentica deve essere pronunciata nel luogo nel quale essa non aveva cittadinanza, là dove regna l’esclusione e la sopraffazione; qui a teatro è troppo facile, cominciando da me stesso. L’utopia di stasera è sciamare, verso quei «luoghi-non» che non esistono più nella nostra coscienza. In fondo la prima utopia è anche la più semplice e diretta: quella di «ripopolare» la nostra coscienza.
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