La moglie morta, il figlio disabile, la figlia violentata, il ragazzo paraplegico
Ecco perché il dolore, anche se ha grande successo in libreria,
non si può chiamare letteratura
Massimo Recalcati
"La Repubblica", 31 marzo 2013
Tra la vita e il libro esiste un salto, una discontinuità che nessuna scrittura è in grado di assorbire Un libro non può mai essere una semplice trascrizione Leggere le confessioni di un autore è spiarne le turbolenze più intime in un movimento di empatia sottile e di voyeurismo Accade anche per i fatti di cronaca nera
Lo psicoanalista di mestiere ascolta storie, narrazioni singolari della vita più intima degli esseri umani. Ascolta senza arrogarsi mai il diritto di giudicare o di misurare le vite che si raccontano. Dal divano dell’analista sorge uno sforzo sincero di poesia sebbene la sola regola che l’analista comunica al paziente sia quella di dire tutto ciò che passa per la mente senza operare censure logiche o morali. I pazienti che così si raccontano non sono — almeno per ciò che dicono — poeti o scrittori. Essi parlano per provare a dire la loro vita e le sue ferite.
Anche nella poesia e nella letteratura “vera” — non quella che viene fatta dal divano — si pone il problema del rapporto tra il vissuto e la parola. Per un verso è facile constatare come le vicissitudini biografiche dell’autore alimentino da sempre l’arte della scrittura. Si potrebbe addirittura affermare che ogni scrittore non faccia altro che scrivere e riscrivere ininterrottamente la sua biografia. La mano dello scrittore è sempre una mano dove si concentra un’intera vita. Esistono, tuttavia, opere che più di altre stringono il nodo tra vissuto biografico e parola. La scrittura assume in questi casi il valore di una vera e propria testimonianza. Abbiamo esempi illustri e sublimi: pensiamo alle Confessioni di S. Agostino, al Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, a Se questo è un uomo di Primo Levi, ma anche a L’interpretazione dei sogni di Freud dove addirittura i sogni più intimi del suo autore diventano materia viva esposta senza veli al lettore e oggetto di elucubrazione scientifica.
Da qualche tempo assistiamo alla tendenza diffusa a ridurre l’esercizio della scrittura a quello della compilazione di un diario privato o, se si preferisce, a trasformare il proprio diario privato in un libro. Sorge allora una domanda: è sufficiente la biografia — l’intimità privata, il tormento e il dolore, il trauma, l’eros e la passione di una vita particolare — a giustificare l’esistenza di un libro? È evidente come non sia sufficiente parlare del proprio dolore per generare un’opera degna di questo nome, come ben sanno i pazienti impegnati nelle loro analisi.
Una vita ricca, appassionata, rocambolesca o tragica, non costituisce in sé un libro. Tra la vita e il libro c’è un salto, una discontinuità che nessuna scrittura è in grado di assorbire. Un libro non può mai essere la semplice trascrizione immediata della vicende della vita anche quando il suo intento è ispirato da un criterio massimamente “realistico”. Non può mai essere la trascrizione alfabetica del vissuto pre-linguistico della vita del suo autore come se il magma lavico dell’esperienza potesse travasarsi direttamente sul foglio (sulla tela, su di una partitura musicale o altro) saltando il medium inaggirabile della parola.
Sappiamo come questo trasferimento della vita sulla pagina scritta non possa avvenire se non attraverso l’imbuto stretto del linguaggio. Questo è il punto. Non a caso quando i surrealisti invocavano Freud come loro padre spirituale teorizzando la scrittura automatica come trascrizione senza filtri intellettuali dell’inconscio sulla pagina bianca, il padre della psicoanalisi ricordava loro la differenza che esiste tra un sogno e un’opera d’arte. Se entrambe possono essere considerate delle produzioni simboliche che scaturiscono dal vissuto più profondo del soggetto, un’opera d’arte, diversamente da un sogno, esige la mediazione calcolata del linguaggio, l’esistenza di una forma, un’attività di sublimazione che sia in grado di trasformare la dimensione informe del vissuto nel miracolo di un’opera.
Se la biografia alimenta certamente l’opera, solo la mediazione del linguaggio è in grado di elevare il suo materiale grezzo e privatissimo in una nuova organizzazione testuale.
La propria vita privata non è mai un libro così come un sogno non è mai un quadro. Vivere non è scrivere, così come sognare non è dipingere o scolpire. Basta soffrire per essere un poeta? Basta vivere un grave lutto o una grave malattia per essere uno scrittore? O, ancora, più semplicemente, basta scrivere per generare scrittura? E quando il diario privato di un racconto biografico assume la dignità di un’opera? A mio giudizio solo quando la scrittura ha saputo trasfigurare il vissuto passionale più privato in una forma che attribuisce a quella esperienza singolare un valore universale.
Il problema non è sterilmente intellettualistico o formalistico. Ci può essere potenza della forma — miracolo della forma — anche nella poesia di un adolescente, ma è certo che l’esistenza di questa potenza non potrà mai essere assicurata dal pathos da cui sgorga. Altrimenti il rischio è che la nota più intima della biografia si dia in pasto al lettore seguendo uno schema fatalmente narcisistico che alimenta nei fruitori fantasmi voyeuristici. Accade anche per
i fatti di cronaca nera o per i grandi disastri. Cosa accomuna e cosa mantiene differenziati il turismo voyeuristico dei luoghi divenuti tristemente celebri dai picchi di vendita che riscuotono i romanzi che espongono senza veli le vicende più intime e drammatiche del loro autore? Farsi fotografare vicino al rudere abbandonato della Costa crociera è entrare illusoriamente dentro la scena dell’evento catastrofico dal punto di vista di chi ne è rimasto illeso e può paradossalmente godere dell’idea di esserne stato risparmiato gioiendo della cattiva sorte toccata ad altri. In questo senso si tratta di un esorcismo collettivo della morte che esige delle vittime sacrificali.
Leggere le confessioni biografiche di un autore è spiare le turbolenze più intime di chi scrive in un movimento di empatia sottile. L’umano è profondamente attratto dal mistero della verità che si cela sotto la maschera. Questa attrazione è alla base di ogni autentica ricerca, ma è anche l’espressione di una certa sete di vendetta nei confronti della perfezione dei nostri modelli che, proprio in quanto ideali, sono sempre oggetti non solo di ammirazione ma anche di odio invidioso. Per questa ragione il crollo, come si dice in questi casi, di un mito, la caduta dei potenti nella polvere, non genera solo sconforto nei loro ammiratori, ma si accompagna anche, in modo ambivalente, ad un sottile senso inconscio di rivincita. È la brace antica del rapporto del bambino con il padre che si riaccende: sotto la maschera del padre-eroe si cela sempre quella di un povero cristo. Lo smascheramento dell’ideale che si rivela un impostore porta sempre con sé una quota maligna di godimento.
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