giovedì 11 aprile 2013

«Biennale Democrazia»


«Utopico. Possibile?» Incontri e dibattiti

«Utopico. Possibile?» è il titolo attorno al quale si sviluppa la terza edizione di Biennale Democrazia, la manifestazione culturale coordinata dal presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, in programma a Torino. Cinque giorni di lezioni, dibattiti, letture di classici, seminari di approfondimento. .


«Biennale Democrazia»: l’intervento di Sbarberi
Anticipiamo la lezione del filosofo in programma sabato 
nell’ambito della manifestazione torinese

Franco Sbarberi

"L'Unità",  10 aprile 2013

SE DURANTE LE GARE DI OLIMPIA LE OSTILITÀ TRA LE CITTÀ GRECHE VENIVANO SOSPESE, CIÒ NON SIGNIFICA CHE LA GUERRA NON OCCUPASSE PIÙ LA MENTE DELL’UOMO. E anche in seguito gli scrittori politici di origine realista e idealista hanno continuato spesso a ripetere con Eraclito che la guerra «di tutte le cose è madre». Nella prima metà del Novecento Carl Schmitt ne ha tratto conseguenze estreme, ponendo al centro della politica il dualismo tra amico e nemico. Con il termine nemico si deve intendere non l’avversario o il concorrente della tradizione liberaldemocratica, ma un «voi» contrapposto a un «noi»: «qualcosa d’altro e di straniero» che può essere eliminato anche fisicamente perché la conflittualità non ammette mediazioni. In termini più generali: il dualismo amico/ nemico è stato al centro di tutte le politiche totalitarie del ventesimo secolo e continua a ispirare le teologie politiche più recenti (come quelle del fondamentalismo islamico).
Ciò nonostante, in alcuni momenti di crisi acuta delle comunità statali (e quindi del rapporto tra potere politico centrale e cittadini) il mondo antico e la modernità hanno incominciato a nutrire anche ipotesi meno cruente, come l’utopia della cittadinanza universale. Quando l’ordine politico delle città greche fu travolto da Alessandro, i maestri della Stoa invitarono a guardare alla comunità più grande che abbraccia tutte le genti, perché «tutti gli uomini sono parenti», come dirà Zenone Cizico. E nella delicata fase di passaggio dalla repubblica romana al principato, Cicerone ammonisce che l’amore del genitore nei confronti del figlio deve ispirare anche «la reciproca solidarietà degli uomini fra di loro». La frequentazione pubblica, le assemblee, l’ordinamento repubblicano sono visti da Cicerone come la proiezione di questa attitudine innata alla socialità.
Nell’Europa premoderna e moderna l’idea cosmopolitica riaffiora più volte sia nella veste di una res publica cristiana sia in chiave antiassolutistica sia come esigenza di un «idioma comune». Ma viene discussa dai grandi pensatori politici soprattutto il moto rivoluzionario in Francia. Simile alle religioni, che collocano l’uomo oltre lo spazio e il tempo, la rivoluzione dell’Ottantanove aveva fatto astrazione dal cittadino francese per rigenerare l’essere umano in quanto tale e definire i suoi diritti e i suoi doveri fondamentali. Di ciò fu pienamente consapevole Kant. Nel saggio sull’illuminismo il filosofo tedesco aveva stimolato il soggetto a usare liberamente la propria ragione; l’ultimo Kant è un profeta lungimirante che invita i cittadini del mondo a farsi forti dei loro diritti. Il primo Kant voleva rischiarare le menti; il Kant degli anni novanta intende rafforzare la volontà degli individui sulla praticabilità dei fini giusti. Perché il progetto cosmopolitico si realizzi è necessario che le nazioni bandiscano la guerra e che si riconosca agli individui il diritto di visita, ossia la possibilità, come egli scrive, di «entrare a far parte della società in virtù del diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma devono all’ultimo rassegnarsi ai incontrarsi e coesistere».
Ciò detto, è stato il Novecento secolo delle ideologie totali e dei conflitti mondiali, ma anche della riflessione ininterrotta sulle potenzialità della democrazia dei moderni a creare le due condizioni oggettive per la «riproducibilità» e per la «simultaneità» del sogno della cittadinanza universale: uno spazio pubblico che giunge ad abbracciare il sistema mondo e la possibilità sempre più sofisticata (utilizzata negli ultimi decenni soprattutto dai movimenti giovanili) di trasmettere e ricevere in tempo reale qualunque messaggio. Il XX secolo è stato importante anche per altre acquisizioni, non soltanto di natura giuridica (come le carte internazionali dei diritti). Dopo la «notte polare» della Grande Guerra, proprio un teorico del disincanto come Max Weber aveva ricordato ai suoi studenti la straordinaria forza mobilitante contenuta nelle utopie: «È’ perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile».
E nell’aprile del 1964, prendendo la parola dinanzi ai giudici che lo avrebbero condannato all’ergastolo, Nelson Mandela terminò così la sua difesa: «Ho combattuto contro la dominazione bianca e contro la dominazione nera. Ho accarezzato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone vivano insieme in armonia e con pari opportunità. È un ideale, per il quale spero di vivere e che spero di raggiungere.
Ma, se sarà necessario, è un ideale per il quale sono pronto a morire». Sia pure tardivamente, i suoi antichi nemici storici, come De Klerk, hanno dovuto prendere atto che l’ideale di una «società democratica e libera» era un obbiettivo per cui vale la pena di continuare a combattere anche in Sudafrica. Alla luce di questi messaggi, vorrei chiedere a Beppe Cambiano: nonostante la replica ininterrotta di guerre e di discriminazioni di varia natura, perché la città cosmopolitica immaginata dagli antichi non è stata uno dei tanti sogni che muoiono all’alba? E a Giacomo Marramao: quali aspetti teorici del cosmopolitismo contemporaneo potrebbero diventare, nel medio periodo, una pratica «possibile» e quali aspetti appaiono invece discutibili e rischiosi? Siamo ormai in grado, come ha scritto fiduciosamente Bauman, di «prevedere l’imprevedibile»?


Se non aspiriamo più al futuro, è il futuro che aspira noi

In anteprima la lezione per Biennale Democrazia: tramontate le utopie dell’800, come tornare a immaginare l’avvenire
Il futuro? L’utopia delle piccole cose
La scienza avanza con tale rapidità che non sappiamo quale sarà lo stato delle nostre conoscenze tra 50 anni
La ricerca scientifica non parte da verità preconcette 
ma dall’ipotesi che non può essere convalidata se non dopo verifica
Si tratta di erigere il metodo scientifico a principio generale di azione sulla società

Marc Augé

"La Stampa",  10 aprile 2013

Marc Augé, 77 anni, è uno dei più noti antropologi contemporanei, con esperienze etnologiche in Africa e America Latina. Già direttore della prestigiosa Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, è il teorico «nonluoghi». Domani (ore 16, Teatro Carignano, introdotto da Cesare Martinetti) terrà una lezione sul tema «Dal futuro utopico al futuro possibile». Ne anticipiamo uno stralcio.

È il grande paradosso della nostra epoca: non osiamo più immaginare il futuro, proprio mentre i progressi della scienza ci offrono l’accesso alla scoperta dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. La scienza avanza con una tale rapidità che oggi saremmo incapaci di descrivere quale sarà lo stato delle nostre conoscenze fra una cinquantina d’anni, che pure rappresentano, su scala storica, soltanto un’infima particella di tempo. Questo paradosso è tanto più stupefacente in quanto i progressi scientifici si accompagnano a invenzioni e innovazioni tecnologiche che non sono prive di effetti sulla vita sociale degli uomini.
Le tecnologie della comunicazione in teoria aprono a tutti possibilità multiple di relazioni. I mezzi di circolazione in teoria permettono a chiunque di percorrere il mondo. Le reti di distribuzione ampliano le possibilità di consumo. Da un altro punto di vista, possiamo constatare che la collaborazione dei saggi e dei ricercatori di tutto il mondo è sempre più necessaria al progredire della scienza: si comunicano i risultati o lavorano direttamente insieme, come al Cern che, a Ginevra, mostra come potrebbe essere l’utopia realizzata di una vita sociale internazionale votata alla conoscenza e alla ricerca fondamentale. [... ]
Quello che inquieta, in fondo, è che non sappiamo più dove andiamo. Le utopie del XIX secolo descrivevano il mondo al quale aspiravano. Le grandi religioni sono state, e a volte restano, animate da un proselitismo che trova la sua origine nel mito fondativo. Il passato, da questo punto di vista, fornisce contemporaneamente un modello, un punto di riferimento e un modo di agire. Oggi il mondo che si richiude su ciascuno di noi è il mondo della tecnologia che è andato più veloce delle società. Noi ci sfiniamo a consumare gli strumenti che quello ci impone. Globalmente abbiamo l’impressione di essere determinati non dal passato ma da un futuro al quale non abbiamo pensato e che vertiginosamente ci aspira. C’è qualcosa dell’apprendista stregone nelle attuali tecnologie della comunicazione. Questo aspetto delle cose, combinato con le crescenti diseguaglianze economiche, spiega perché, per certi aspetti, l’avvenire ci faccia paura. Se noi non aspiriamo più al futuro, è lui che aspira noi.
Come riprendere piede in ciò che, per certi aspetti, assomiglia a una fuga in avanti? Mi sembra che solo partendo da constatazioni semplici e chiare potremmo immaginare una risposta a questa domanda. [... ] Si tratta di erigere il metodo scientifico a principio generale di azione sulla società. A volte si parla di «scientismo» per condannare le forme di sicurezza e certezza eccessive. Ma la scienza non ha nulla a che vedere con lo scientismo. La ricerca scientifica passa per l’ipotesi che non si può convalidare se non dopo la verifica. Non parte da una verità preconcetta, ma si sforza di spostare un pochino più in là le frontiere dell’ignoto. La scienza nel suo insieme è il solo ambito dell’attività umana a proposito del quale si può parlare a colpo sicuro di progresso cumulativo. È precisamente la pratica dell’ipotesi che ha permesso l’avanzata del sapere, nella misura in cui essa costituisce una scommessa sul futuro sempre rivedibile. Si ritorna sulle ipotesi, se l’esperimento fallisce la verifica. Nei Paesi comunisti, l’accusa di revisionismo era insultante e grave. Al contrario, l’idea che il modello scientifico possa ispirare la politica umana passa per la promozione dell’ipotesi, della verifica e della revisione.
A questo proposito ci si può giustamente chiedere se la conoscenza non sia la finalità ultima dell’esistenza umana e, in modo più generale, se la questione dei fini non debba ordinare l’insieme dei dibattiti politici, economici e sociali. Se il peccato originale ha potuto essere definito come il peccato della conoscenza, del desiderio di conoscere, la convergenza con il mito pagano di Prometeo disegna al contrario un ideale per l’umanità. L’ideale della conoscenza come finalità ultima della condizione umana si situa, certo, al di là dei limiti spaziali e temporali della vita individuale, ma suggerisce che la vera uguaglianza degli individui umani passa per l’accesso alla conoscenza, all’istruzione. Dando alla conoscenza il compito di oggetto e fine ultimo dell’umanità, si ricorda semplicemente l’uguale dignità di tutti gli individui. «Ciascun uomo, tutto l’uomo», secondo la formula di Sartre. Si tratta di rispondere alla domanda fondamentale: per che cosa viviamo? Nel senso di: in vista di che cosa? La finalità della conoscenza con è contraddittoria con quella della felicità ed è all’epoca dei Lumi che il diritto alla felicità è stato formulato con chiarezza.
Ora la felicità non può definirsi per ogni individuo se non con la coscienza simultanea di sé e degli altri. L’amore individuale è una forma esacerbata e più o meno duratura di questa coscienza, di cui si trova un’espressione più collettiva nella parola «Fraternità» che la Repubblica francese ha aggiunto alle prime due parole del suo motto: Libertà e Uguaglianza. L’individuo, chiunque sia, non può pretendere a una felicità totale più di quanto non possa pretendere alla conoscenza totale. [.... ]
Non tutto dunque è negativo nella constatazione, che siamo obbligati a fare, di un indebolimento o anche di una scomparsa delle proiezioni politiche del XIX secolo perché, in fin dei conti, questa assenza di rappresentazioni costruite del futuro ci dà forse un’effettiva opportunità di concepire cambiamenti nutriti dell’esperienza storica concreta e della pratica della ricerca fondamentale.
Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a volgerci al futuro senza proiettarvi le nostre illusioni. Formulare delle ipotesi per testare la loro validità, spostare progressivamente e prudentemente le frontiere dell’ignoto, ecco ciò che la scienza ci insegna, ciò che qualunque programma educativo dovrebbe promuovere e ciò a cui qualunque riflessione politica dovrebbe ispirarsi. Ed ecco che contemporaneamente si disegna la sola utopia che valga per i secoli a venire, le cui fondamenta dovrebbero essere gettate o rinforzate con grande urgenza: l’utopia dell’istruzione per tutti, la cui realizzazione è la sola in grado di frenare, poi di invertire, quella dell’utopia nera che oggi si sta realizzando: una società mondiale diseguale, in maggioranza incolta, illetterata o analfabeta, condannata al consumismo o all’esclusione, esposta a tutte le forme di violenza e al rischio di un suicidio planetario. [Traduzione di Marina Verna]


Il mondo delle idee

Siamo davvero felici solo quando pensiamo
Ecco perché abbiamo smarrito il più grande bene della vita, la riflessione
Anticipiamo l’intervento di Zagrebelsky a Biennale Democrazia, oggi al via

Gustavo Zagrebelsky

"La Repubblica",  10 aprile 2013

In uno dei primi trattati sulla felicità – il dialogo di Senofonte “Gerone, o della tirannide” – il poeta lirico Simonide (VI-V secolo a. C.) tratta dei beni che danno felicità, quando li si possiede, e infelicità, quando mancano. Non esistono beni di questo genere in assoluto: dipende dalla natura degli esseri umani. Le persone sensuali trovano i loro beni con gli occhi per ciò che vedono (gli spettacoli), con gli orecchi per ciò che sentono (la musica), col naso per gli odori (i profumi), con la bocca per ciò che ingurgitano (il cibo e il vino) e con ciò che conosciamo in ragione del sesso (i corpi degli amati). C’è poi il sonno, che genera felicità per il corpo e per l’anima, forse perché attutisce le sensazioni. Conosciamo persone per natura superbe e arroganti. Costoro trovano la felicità nei grandi progetti, nel superfluo in abbondanza, in cavalli d’ineguagliabile velocità, in armi belle e potenti, in gioielli per le proprie amanti, in dimore magnifiche e molta servitù, nella sopraffazione dei nemici, nell’ammirazione della gente. Ancora: ci sono persone spirituali, per le quali i veri beni sono quelli dell’anima, l’amicizia, l’amore, la saggezza, la contemplazione, la filosofia, l’armonia con i propri simili e con la natura.
Negli elenchi di quelli che consideriamo i beni della vita, non troviamo le idee. Eppure, la grande maestra che è la lingua non ci dice qualcosa di diverso, quando parla di “poveri o ricchi d’idee”? Poveri e ricchi non solo nel senso della quantità, ma anche dell’accrescimento esistenziale: noi non diremmo poveri o ricchi di ferite, di malanni, di mali, ecc.; ma lo diciamo quando la cosa di cui ci diciamo ricchi o poveri è un bene per noi, qualcosa che ci può, per l’appunto, “arricchire”. Le idee possono dare anch’esse felicità (in qualche momento, anche più di altri beni) alle persone di pensiero, e ciò vale in quanto tali, indipendentemente dal fatto che siano vere o false, giuste o ingiuste, buone o cattive. Non si tratta di giudizi sul contenuto, ma d’idee in quanto idee. I giudizi vengono dopo.
Permettete un riferimento in prima persona. Poiché il tempo passa, la memoria diminuisce e l’improvvisazione è sempre più pericolosa, ho preso l’abitudine di preparare le lezioni scrivendone la traccia, per poterla usare quasi come una rete di sicurezza. Ebbene, una mattina, mi sono trovato senza. Non sapevo dove fosse sparita. Ho proposto allora agli studenti di fare così: prendere l’ultimo argomento trattato (era la pena di morte, un tema davvero inesauribile: lo Stato dispensatore di vita e di morte: summum ius o summa iniuria?) e di ragionare insieme, lasciando per così dire libero il pensiero di svilupparsi da sé, da un’idea all’altra. Abbiamo, per due ore, “prodotto idee” con molta nostra soddisfazione d’esseri pensanti, riconosciuta da tutti.
Chi abbia fatto una qualche simile esperienza di scoperta d’idee, che può giungere all’entusiasmo, non avrà dunque difficoltà nel considerare le idee “beni della vita”, e l’elaborazione d’idee qualcosa cui può essere dedicata, in tutta o in parte, la propria esistenza, non meno degnamente di altri, che la spendono nell’autorealizzazione in differenti aspetti dell’umana natura. Invece, nella comune percezione, le idee non entrano affatto a far parte dei beni della vita. Anzi, sembrano stancare, essere perdita di tempo, divagazioni senza costrutto; nella migliore delle ipotesi, qualcosa da cui le “persone del fare” possono facilmente prescindere. Le idee sono per “gli intellettuali”, parola che si pronuncia sempre con una certa dose di disprezzo. Pensare: che cosa noiosa, pesante, pedante, superflua!
Un’idea che, dall’antichità, giunge fino a noi come stella polare dell’esistenza, cui si dedicano libri, riviste, convegni, “terze pagine”, è la felicità. Chi non pensa, tanto più oggi, quando le cose sembrano andare al contrario, che il fine della vita è la felicità e che, quindi, il primo diritto che gli spetta è il “diritto alla felicità” o almeno alla libera “ricerca della felicità” (come recita la Dichiarazione d’indipendenza americana)? Poiché, poi, siamo figli di un’epoca in cui tutto, per esistere, sembra dover essere misurabile e quantificato, non solo si parla di felicità, ma ci si dedica anche a calcolarla. Sembra, così, che si possa avere un’idea oggettiva, scientifica, di che cosa sia la felicità. Non si tratta di essere felici come a ciascun piace, ma di vivere in società felici, come piace a chi può dispensare a tutti una buona e bella vita, secondo intenti analoghi a quelli dei “principi illuminati” del Settecento.
Che tutto ciò sia sensato, è lecito dubitare. Le intenzioni sono evidentemente buone: si tratta di contestare il Pil come unico misuratore del benessere d’una nazione e di affermare che ci sono ricchezze che sfuggono agli orizzonti dell’econometria. È merito di Robert Kennedy il discorso pronunciato all’Università del Kansas, il 18 marzo 1968, in cui si denunciava la riduzione economicista e materialista della felicità e dell’infelicità all’indice Dow-Jones e al prodotto nazionale lordo «che non misura né il nostro ingegno né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza». Nell’elenco dei beni che fanno felici e che rendono umana la vita sono inclusi le competenze, la cultura e altri beni dello spirito, ma invano cercheremo le idee.
Lo stesso, quando i governi s’indirizzano a impiantare su basi scientifiche le loro politiche per la felicità e, a questo scopo, s’impiegano mezzi demoscopici e i sondaggisti si mettono all’opera. Il 26-27 marzo 2010 una sessantina di psicologi, politici, filosofi, economisti si sono riuniti a Rennes, in Bretagna, per discutere del tema Le bonheur: une idée neuve.
Per la verità, già Saint-Just, sulla fine del Settecento, aveva esclamato: «La felicità è un’idea nuova in Europa». “Felicità” è infatti una delle parole più ricorrenti in tutta la pubblicistica di quel secolo. Ora ritorna d’attualità, sotto specie di “benessere”. Il governo Sarkozy ha commissionato a tre dei maggiori intellettuali del nostro tempo: Stiglitz, Sen e Fitoussi un rapporto, reso pubblico nel settembre 2009, destinato a suggerire criteri per il ricalcolo del benessere collettivo, sottraendolo alle regole puramente produttivistiche del Pil. Si è andati in là, suggerendo di prendere in considerazione non solo la misura del prodotto e del consumo di beni materiali, ma anche i cosiddetti “beni relazionali” come i rapporti sociali e il tempo libero, la pubblica sicurezza, ecc. Altri, hanno aggiunto la salute, l’istruzione, la certezza del lavoro, la casa, la vivibilità delle città, il verde pubblico, gli affetti familiari e la loro stabilità, ecc.
Altri indicatori dello sviluppo, che distinguono gli aspetti quantitativi da quelli qualitativi, sono utilizzati, per esempio, nel Genuine Progress Indicator. Di recente, anche il nostro Paese ha iniziato a fare la sua parte in questo genere di calcoli. L’Istat e il Cnel hanno messo a punto il Bes (Benessere equo e sostenibile), un misuratore che il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, ha definito «una specie di costituzione statistica fondata su dodici indicatori. Non tutto ha un prezzo: il sorriso di chi ci circonda, la solitudine, l’ansia di non avere un lavoro, l’aria che respiriamo, la biodiversità. A livello globale gli economisti e gli statistici l’hanno capito da tempo ». Si tratta di «veicolare il messaggio che avere carceri umane, sconfiggere il femminicidio, valorizzare il patrimonio culturale, preservare l’ambiente, leggere libri, sostenere la ricerca, restituire credibilità alla politica […] migliora la vita di tutti ». ("La Repubblica", 10 marzo 2013).
Questi parametri e le politiche che ad essi s’ispirano sono cose buone, anche se non si deve trascurare il rischio che diventino armi ideologiche per interessi politici. Ciò che più interessa qui è, però, il fatto che le idee non entrano nel computo dei fattori di vita buona. Entrano di solito le scuole, i musei, i libri, la lettura, i concerti e altre cose di questo genere, che hanno a che vedere con la cultura, ma non necessariamente con le idee. Possono esistere, infatti, anche senza idee, senza “nuove idee”, con idee morte.
Non si dica che le idee sono difficilmente censibili. Forse che lo sono più facilmente “la certezza del lavoro”, “la vivibilità delle città”, “il verde pubblico”, “gli affetti familiari”? Le idee sembra che siano irrilevanti per la nostra soddisfazione, se non addirittura per la nostra felicità. Si capisce la difficoltà di contarle e la loro estraneità
alle politiche pubbliche. Eppure, comprendiamo facilmente che una vita senza idee e una società che non sprigiona idee, sono letteralmente “infelici”, cioè infeconde, non creative, destinate non a vivere ma, nelle migliori delle ipotesi, a sopravvivere come colonie. Se confrontassimo le diverse società e le loro diverse epoche dal punto di vista del loro fervore ideale, potremmo, per quanto approssimativamente, stabilire un più e un meno; cioè, in fondo, potremmo stilare classifiche e, per esempio, interrogarci sullo stato della nostra società, nel nostro tempo. Forse, la risposta sarebbe rattristante.
Ma, in generale, che cosa dice questo silenzio sul valore delle idee, quanto ai caratteri dello spirito del nostro tempo? Forse, che è un tempo edonista, materialista, che ha bisogno di esseri mentalmente programmati per un tipo di società che, a parole, esalta il pluralismo delle idee e, quindi, la libertà della cultura ma, nella realtà, ha bisogno che di idee ce ne sia una sola, grande, omogenea, e che di quella libertà non sa che farsi. Tante idee liberano; una sola opprime.

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