A 1700 anni dall’Editto di Milano arriva, ampliata, nella capitale la mostra sull’imperatore che si convertì al cristianesimo e concesse la libertà di culto
Giuseppe M. Della Fina
"La Repubblica", 14 aprile 2013
Costantino 313 d. C., arriva al Colosseo ampliata rispetto a quella di Milano, e nella capitale il tema prevalente diviene il rapporto tra l’imperatore e Roma, più problematico di quello che si sarebbe indotti a pensare.
Da un lato dobbiamo considerare infatti il poco tempo trascorso da Costantino nell’Urbe dove entrò, per la prima volta, dopo la vittoria riportata nella battaglia di Ponte Milvio e vi ritornò soltanto in altre due occasioni: è stato calcolato che complessivamente, in più di 31 anni di regno, non vi trascorse che qualche mese. Va ricordata poi la sua attenzione per altre grandi città, prima fra tutte Costantinopoli che ne fece, come ha osservato Ranuccio Bianchi Bandinelli: “la nuova capitale dell’Impero, più prossima alla difficile frontiera orientale, la nuova Roma, lontana dalle ingerenze politiche dell’aristocrazia senatoria”. E ancora una certa freddezza con l’aristocrazia della capitale restata in buona parte fedele alla religione tradizionale. Un distacco che diviene evidente nella frase attribuita a Costantino: “Serdica [l’attuale Sofia] è la mia Roma”.
Dall’altro lato occorre osservare che gli interventi nell’assetto urbano di Roma furono numerosi e arrivarono a mutarne l’aspetto: si è parlato a ragione della nascita di una Roma di Costantino in grado di condizionare il paesaggio urbano per decenni. Lungo il percorso espositivo le tracce di questa intensa attività edilizia, finalizzata all’affermazione di una Roma cristiana accanto a quella pagana, sono presentate attraverso capitelli, lesene, fregi architettonici, frammenti di lastre di soffitto, fusti di colonna. Le decorazioni rinviano a motivi tradizionali, ma tra essi s’inseriscono schemi e temi nuovi. Reperti non particolarmente preziosi, ma che riescono a dare un’idea della vitalità dei cantieri in attività e della trasformazione sociale e culturale in atto.
Una fretta di portare a termine edifici, chiese, dimore, singoli monumenti che prende spesso la scorciatoia del riuso – talora quasi del saccheggio – delle costruzioni precedenti: fortemente indicativo in proposito è il materiale di spoglio utilizzato nella costruzione dello stesso Arco di Costantino: rilievi traianei, adrianei, dell’epoca di Marco Aurelio. In questa frenesia compositiva non deve sfuggire la volontà di onorare Costantino attraverso il ricordo di tutti gli imperatori più venerati, dopo Augusto, nella memoria dei romani. L’aspetto pratico del riuso non deve arrivare a cancellare il valore simbolico riconosciuto ad opere (o a frammenti di esse) testimoni di un’epoca precedente con la quale occorreva misurarsi sia che s’indulgesse al rimpianto sia che la si volesse superare.
In mostra sono confluiti poi – con notevole merito - reperti di recentissimo ritrovamento come i gioielli rinvenuti nel luglio del 2012 in una tomba a pavimento scoperta all’interno di una basilica “a deambulatorio” (una caratteristica architettonica comune proprio a un gruppo di edifici del suburbio di Roma costruiti in età costantiniana) rinvenuta sulla via Ardeatina. In essa si è voluta riconoscere la chiesa fatta edificare da papa Marco nel 336 d.C. per svolgere la funzione di luogo di sepoltura per la comunità cristiana grazie anche al sostegno finanziario di Costantino. Essa accolse, con ogni probabilità, la stessa tomba del pontefice.
Infine si può menzionare un capolavoro assoluto: il pannello a intarsio di marmi policromi appartenente alla decorazione delle pareti della Basilica di Giunio Basso: il centro della scena è occupato da un magistrato su una biga che guida la pompa circensis, la parata che apriva i giochi. Di nuovo un alternarsi tra la Roma pagana e quella cristiana.
Il sito dell'esposizione: CLICCA QUI.
Da Ponte Milvio all’Editto di Milano
Dopo la vittoria contro Massenzio e Licinio
ottenne il potere assoluto, ma mancava ancora un’ideologia
Per questo scelse il nuovo dio dei cristiani
e piegò le parole di Virgilio per farlo accettare dai romani
Maurizio Bettini
Quando Costantino, nel 312, decise di attaccare Massenzio, in realtà si era solo all’inizio. I territori dell’impero erano allora divisi fra Massimino Daia, Licinio e Costantino stesso, mentre Massenzio aveva il controllo su Roma. Costantino era animato da un progetto ambizioso, che lo avrebbe portato al dominio assoluto, e aveva deciso di cominciare da Roma. Ma quale dio avrebbe potuto garantirgli, con la sua protezione, una vittoria tutt’altro che facile?
Negli anni precedenti la religione cristiana era stata oggetto di persecuzione, prima da parte di Diocleziano, poi di Galerio. Non sorprende dunque che Costantino, alla vigilia della sua discesa verso Roma, fosse ancora incerto sulla scelta della divinità che meglio avrebbe potuto sostenere la sua impresa. Ercole? Il Sol invictus?
Oppure il dio dei cristiani? In quell’epoca erano ancora molte, infatti, le potenze divine che avrebbero potuto offrire il proprio appoggio a un comandante ambizioso. Costantino aveva visto che i suoi predecessori, fedeli agli dèi tradizionali, erano stati sconfitti; mentre si diceva che Costanzo Cloro, suo padre, fosse stato più fortunato degli altri proprio perché seguace del dio dei cristiani. Al momento, comunque, Costantino riponeva ancora la sua fiducia nel Sol invictus, una divinità che aveva raggiunto una posizione di assoluto rilievo nel pantheon dei Romani. Salvo che una volta disceso a Roma, e in procinto di affrontare truppe superiori alle proprie, egli ebbe prima un sogno, poi, a conferma, una visione: il famoso monogramma del Cristo, il Chiros dell’In hoc signo vinces.
Avvenne così la conversione al cristianesimo e con lei, l’insperato successo su Massenzio a Ponte Milvio. Così, almeno, narrano gli storici.
Inutile sottolineare che questo evento del 312 era destinato ad avere enormi ripercussioni sul seguito della storia europea — e non solo europea. La scelta religiosa di Costantino fu dettata da sentimenti sinceri o da calcolo politico? Questa domanda ha agitato a lungo il mondo degli studi, e non solo questo, dato che in gioco c’era una posta tanto storica quanto teologica. Si tratta ovviamente di una domanda a cui è impossibile dare una risposta. Peraltro, varrà la pena di ricordare che la presenza del Sol invictus è ancora testimoniata nei rilievi del celebre Arco dedicato a Costantino dopo la vittoria su Massenzio, mentre monete recanti simboli del culto solare si continuarono a coniare anche dopo il 312. Senza dimenticare che, nel foro di Costantinopoli, l’imperatore fa un giorno riadattare per sé una statua colossale, già di Apollo, sostituendo alla testa del dio la propria sormontata da una corona di raggi. Segno di come i cammini della storia, anche di quella religiosa, siano tutt’altro che rettilinei. Ma abbastanza inaspettatamente, ecco entrare in scena anche un grande poeta, Virgilio. In che modo?
Negli anni successivi alla vittoria di Ponte Milvio, Costantino aveva continuato a perseguire il suo progetto, favorito dall’eliminazione di Massimino Daia da parte di Licinio. Non rimaneva che costui a sbarrargli il cammino verso il controllo dell’impero, e Costantino lo sconfisse nel 324 a Crisopoli. Nel frattempo i provvedimenti a favore dei cristiani e della loro religione si erano moltiplicati, con il famoso “editto di Milano” — emanato esattamente 1.700 anni fa — (che assegnava loro libertà di culto), il riconoscimento della domenica come giorno festivo, l’esenzione dei ministri del culto dai doveri fiscali. Ma che c’entra Virgilio?
Era accaduto che in un periodo imprecisato fra il 312 e il 324 Costantino stesso, se non qualche letterato di corte a suo nome, aveva composto un’orazione destinata a esser letta in occasione del Venerdì santo. In essa trovava posto anche una traduzione in greco della quarta Ecloga di Virgilio, l’enigmatica composizione in cui il mantovano, appellandosi a un oracolo della Sibilla, celebrava l’avvento di una nuova era di pace, propiziata dalla nascita di un misterioso puer. In quest’ecloga Virgilio, in pieno conflitto civile fra Ottaviano e Antonio, profetizzava la rinascita del cosmo e la discesa dal cielo di una nuova progenie; la vergine, cioè la giustizia, sarebbe finalmente tornata fra gli uomini, e il misterioso bambino avrebbe infine ricevuto onori divini. Chi era questo puer? Si trattava di un figlio del console Pollione, a cui l’ecloga era peraltro dedicata? Oppure il poeta intendeva riferirsi alla futura prole di Ottaviano e Antonia, uniti in un fragile matrimonio che non riuscì a riportare la pace fra i due contendenti?
Costantino (o l’ignoto autore dell’orazione) risolse l’enigma in modo brillante, ossia identificando il bambino con Gesù, disceso fra gli uomini per portare la salvezza, e destinato a “ricevere la vita di Dio”. La vergine giustizia fu mutata nella Vergine Maria, “che riporta l’amabile re”, e l’intera ecloga venne abilmente cristianizzata, modificandone il testo (complice la traduzione in greco) là dove occorreva, e attribuendo a Virgilio il ruolo di profeta della nuova religione. Non era cosa da poco. Il mantovano era considerato non solo il maggior poeta di Roma, ma una sorta di savio universale, e poterlo iscrivere nelle file dei cristiani non poteva che accrescere enormemente la loro autorità culturale. In realtà l’idea di avvicinare Virgilio alla nuova religione era stata già di Lattanzio, chiamato a corte per educare uno dei figli di Costantino. I cristiani sostenevano infatti che negli oracoli della Sibilla Cumana, uno dei testi profetici più autorevoli dell’antichità, sarebbe stato già preannunciato l’avvento del Salvatore. Ebbene, la quarta Ecloga di Virgilio non prendeva forse avvio proprio da un oracolo della profetessa? «È giunta l’ultima era della profezia di Cuma…» cantava Virgilio. Solo che Lattanzio non era arrivato al punto di trasformare l’intera poema in un testo cristiano, e di fare del mantovano un profeta a pieno titolo. Costantino ebbe il coraggio di farlo, e quest’abile leggenda letteraria non solo sarà accettata da Dante, ma continuerà a trovare sostenitori fino ai giorni nostri.
Augusta e santa, la leggenda della madre Elena
Un libro ricostruisce il suo ruolo chiave nella decisione del figlio
Raffaella De Sanctis
Costantino sapeva di dover gran parte della sua fortuna a sua madre. Per questo, una volta diventato imperatore, nel 324 d. C., volle che Elena fosse qualificata Augusta, epiteto in genere destinato alle mogli. Di lei sappiamo pochissimo, ma la vaghezza delle notizie ha contribuito alla nascita della sua leggenda. Dei personaggi mitici Elena ha tutte le caratteristiche. Viene dal basso (lavorava con ogni probabilità nelle taverne come locandiera), era una concubina (Costanzo Cloro, padre di Costantino, non la sposò, preferendole Teodora, figlia dell’imperatore Massimiano), è stata un’amante abbandonata e una madre costretta a vivere nell’ombra.
Ci sono donne che non solo segnano il loro tempo, ma anticipano il futuro. Elena ha capito di vivere all’incrocio di due mondi, quello pagano e quello cristiano, e ha saputo guardare a entrambi: imperatrice e santa, donna di potere e viaggiatrice in Palestina. Sarà grazie a lei che Costantino si avvicinerà alla fede cristiana, e concederà poi la libertà di culto.
Elena era consapevole di sé, era una donna forte e lo trasmetteva anche nel modo di vestire o nelle acconciature che sceglieva, adornandosi di gioielli e impreziosendo la sua figura con un diadema incastonato tra i capelli. I suoi ritratti parlano meglio di qualsiasi lacunosa fonte scritta. Nel libro Elena. All’ombra del potere che accompagna la mostra (edizioni Electa, pagg. 96, euro 19, realizzato col sostegno della Fondazione Bracco), Elena Calandra, soprintendente per i beni archeologici del Lazio, spiega l’importanza storica della madre di Costantino analizzando le iconografie che la riguardano, dalle raffigurazioni sulle monete alle statue (in coda al volume un album di illustrazioni mostra i reperti presi in esame).
L’imperatrice amava indossare monili, ma in lei non c’era alcun tentativo di sembrare più giovane: nelle immagini che ci sono giunte il naso conserva la sua naturale curvatura aquilina (come nel solido Ticinum conservato al British Museum), il viso appare a volte troppo pieno, altre stanco e scavato (è il caso del solido Sirmium), sempre comunque segnato da profonde occhiaie, come accade in una donna matura. Elena doveva simboleggiare la Securitas e non c’è maggior sicurezza, certo, di quella di una donna che regna sovrana sul tempo che passa. Da qui la scelta di farsi effigiare con la sua età reale, puntando più sui simboli del rango e del ruolo imperiale che sulla bellezza.
Della sua vita si innamorò lo scrittore britannico Evelyn Waugh, raccontandone, in un romanzo del 1950 intitolato Helena, l’anima cristiana di pellegrina in Terra Santa all’età di settant’anni. Fu l’ultimo atto coraggioso della sua vita: il passaggio dal ruolo dinastico all’evergetismo, una forma che la spinse a costruire chiese a Gerusalemme e sul Monte degli Olivi, diventando “ambasciatrice” del potere del figlio all’interno dell’Impero. Il ritrovamento della Vera Croce inaugurerà un altro capitolo della sua storia, che Piero Della Francesca rese celeberrimo negli affreschi di Arezzo.
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