Perché sentiamo il bisogno di conoscere mondi differenti
PAOLO DI STEFANO
"Corriere della Sera", 5 aprile 2013
Ci sono concetti e immagini talmente integrati nella nostra cultura da indurci erroneamente a pensare che provengano da un tempo remoto, come se non avessero un'origine identificabile e fossero in vita da sempre. Di solito servono strumenti molteplici, tra la linguistica e l'antropologia, per mettere a fuoco la nascita di un'idea che ha finito per entrare nel cosiddetto immaginario collettivo e che con il tempo è necessariamente andata mutando, invadendo, toccando o sfiorando diverse aree semantiche.
L'invenzione della natura selvaggia di Franco Brevini (Bollati Boringhieri, pagine 439) sta al confine tra diverse discipline e generi, mette in moto numerosi sguardi, codici e linguaggi, fa uso di una bibliografia sterminata, che va dalla trattatistica ai pamphlet alla poesia, per definire i contorni di una nuova sensibilità nel rapporto tra l'uomo e la natura.
Se vengono in mente libri tra loro molto dissimili, che comprendono certi percorsi alla Fosco Maraini ma anche indagini storiografiche come La nascita del Purgatorio di Jacques Le Goff, è perché Brevini è molto abile nel mescolare le carte, facendo della sua opera un'opera-mondo, una specie di millefoglie, un testo composito, dove l'esperienza diretta si mescola con la riflessione filosofica, la critica della cultura e la critica letteraria, che è, insieme al racconto di viaggio, la sua vera specialità.
Opera-mondo nel senso più letterale, perché l'autore ci porta ovunque, un ovunque inteso su più piani: epistemologico, cronologico, spaziale. Il punto cruciale sta forse in una frase che si trova nella sua lunga e articolata introduzione: l'idea di natura selvaggia, nella doppia declinazione inglese sia di wilderness che di wildness, è un'idea tutt'altro che naturale, è un prodotto culturale, «è un sogno che ci portiamo dentro, è un mito del nostro universo mentale».
Con la fine del Settecento, si impone una nuova sensibilità che si fa carico di una perdita ben sintetizzata dalle parole di Schiller: gli antichi sentivano naturalmente, i moderni sentono la natura. È una svolta che non riguarda solo gli specialisti ma che comporta una rinnovata percezione complessiva del rapporto tra natura antropizzata e natura selvaggia, coinvolgendo un reticolo di saperi e di conoscenze. E una diversa percezione morale dell'ambiente. Non più un atteggiamento protezionistico, piuttosto una deep ecology (secondo la definizione del pensatore norvegese Arne Naess), cioè una prospettiva ecocentrica, non antropocentrica. In un libro leggibile a diversi livelli, un filo rosso importante è rappresentato dal richiamo a un'«etica per l'ambiente» così estranea alle politiche e alla cultura italiane.
La parte più godibile del libro di Brevini, che si giustappone e si integra con le dense pagine riflessive e storico-culturali (molto istruttivi, tra gli altri, i paragrafi relativi ai procedimenti euristici della cultura rinascimentale svizzera), resta comunque quella narrativa, che ci accompagna dalle falesie calcaree malesi all'Etna in eruzione, dai più remoti villaggi della Groenlandia alle ascensioni sul Monte Bianco. Non manca niente. E il tutto si accompagna con una messe enorme di richiami letterari (decine i brani poetici di ogni tempo che illustrano paesaggi e sentimenti naturali), artistici, manualistici, storico-scientifici, sempre con la preoccupazione di mettere a fuoco il mutevole rapporto dell'uomo con l'esotico naturale che, mentre diventa esperienza vissuta anche off-limits, viene posto in scena, narrato, dipinto, mitizzato con l'avvento della modernità.
Il viaggio fisico e ideale dentro la natura selvaggia consente di acquisire una coscienza talmente semplice, almeno in apparenza, da essere spesso rimossa o dimenticata: che abbiamo radici naturali. Lo dice Holmes Rolston, uno dei padri delle environmentalethics, che è tra i tantissimi nomi che compaiono nel libro di Brevini. Ma la conclusione di questa avventura civile e intellettuale spetta all'autore, che giustamente le aggiunge una valenza autobiografica: «La wilderness come forza generatrice indifferente all'umano e l'immersione in essa come anamnesi verso le sorgenti della vita sono una delle esperienze più sconvolgenti che personalmente ho vissuto inoltrandomi negli ambienti selvaggi». Là in mezzo, confessa Brevini, si sentiva fragile e indifeso: «davvero finitudine e nullità». Non tutti ne fanno tesoro, poi, al ritorno.
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