Melania Mazzucco
"La Repubblica", 28 aprile 2013
Non ho mai capito se quelli che vogliono salvare il mondo sono più ingenui o pericolosi. Li ammiro e ne diffido. La Confraternita dei Pre-Raffaelliti voleva salvare l’arte riportandola a una presunta ingenuità originaria. La formazione artistica di Burne-Jones era stata finanziata da John Ruskin, mentore della Confraternita, che gli aveva pagato nel 1859 il primo viaggio in Italia. Così la sua pittura idealizzante e anacronistica, ispirata a Beato Angelico e Gentile da Fabriano, rifletteva gli ideali di un’arte pura ed elitaria, che si opponeva alla volgarità del realismo e al materialismo del mondo contemporaneo. La società vittoriana gli oppose resistenza, ma poi lo adottò, facendone un personaggio della Londra fine ’800: un mistico apostolo della bellezza, e alla fine anche un baronetto.
Per me sir Burne-Jones è il protagonista di un paradosso. Amo le sue superfici senza profondità abitate da dee, cavalieri erranti, statue e sirene; non perché avesse senso resuscitare un’arte morta da secoli con le convenzioni e le convinzioni che la ispirarono, ma perché – teorizzando l’esatto contrario – Burne-Jones stava inventando un’arte del futuro, popolare e universale. Il fumetto. O, come si dice oggi, la graphic novel.
Il destino compiuto è un episodio del mito di Perseo, uccisore di Medusa e liberatore di Andromeda, che impegnava Burne-Jones dal 1868. Narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, era stato dipinto da innumerevoli pittori (fra cui prediligo Piero di Cosimo, Tiziano e Moreau). Ma lui era partito da William Morris. Amico e sodale dai tempi di Oxford, quando leggevano a voce alta tomi di Platone, Morris aveva riscritto il mito nel poemetto The Doom of the King Acrisius (che fa parte della raccolta The Earthly Paradise).
Burne-Jones intendeva illustrare il volume dell’amico con 500 disegni. Ne preparò una settantina, poi il progetto naufragò.
Intorno al 1875 il conte Arthur Balfour, rampante politico tory nonché occultista, spiritista e letterato, gli commissionò la decorazione del salone principale della sua casa di Carlton Gardens. Gli lasciò la scelta del soggetto, e Burne-Jones tornò a Perseo. Un quadro, per lui, era il risultato di una maniacale elaborazione. Realizzò dunque svariati disegni a penna e inchiostro; poi li traspose ad acquarello su cartoni; approntò rilievi in gesso dorato su pannello di quercia e solo dopo iniziò a dipingere (lasciava asciugare il colore per mesi, e talvolta aspettava anni prima di verniciare). Passò il tempo: delle 10 tele a olio promesse a Balfour, ne finì solo 4. Il destino compiuto prevede lo scontro finale fra Perseo e il mostro che minaccia la vergine Andromeda. Scontro elementare, etico: il Bene contro il Male.
Ma Burne-Jones non credeva in un’arte didattica: i quadri non devono spiegare, piuttosto suggerire il mistero. La perfezione elegante della linea, il nitore formale, la meticolosità della pennellata, la precisione dei particolari conferiscono al quadro il ritmo ipnotico di una danza. Si tratta di una lotta mortale: ma non c’è movimento, furore, dinamismo. Totale è l’assenza di dramma. La composizione è cristallizzata in un’immobilità onirica.
Andromeda callipigia, in posa come una statua greca sul piedistallo dello scoglio, ci offre la visione di un nudo integrale femminile dal lato b tra i più attraenti della storia dell’arte. Appena sciolta dalla catena che la ancorava alla roccia a forma di menhir (ma anche di fallo), non sembra spaventata: volge il viso a destra verso il suo liberatore, Perseo. Non fosse perché in testa ha l’elmo che lo rende invisibile e non una chioma di capelli di rame, l’androgino eroe sarebbe identico a lei. Stesso volto aguzzo, stesso naso, stessi occhi.
Il suo abbigliamento è stupefacente. Burne-Jones studiò per mesi le armature da collezione, e si fabbricò un elmo di cartapesta. Non voleva inserire nel quadro armi o oggetti che rimandassero a un’epoca precisa. Il mito è fuori dalla storia e dalla realtà. È sempre.
Perseo indossa un’armatura che riverbera barbagli d’argento, o una corazza sottile di cuoio nero che gli aderisce alla carne come una seconda pelle? Entrambe, direi: la lamina d’acciaio sembra subire una metamorfosi e diventa guaina sulle cosce e i polpacci. Perseo è protetto da una sorta di maschera – guscio e talismano – come il supereroe Batman.
Il mostro, Burne-Jones lo immagina come un fascinoso serpente (e così gli assegna natura diabolica). Ma acquatico: una murena gigante, dalla pelle nera, liscia e lucida come la camera d’aria di un pneumatico. Perseo e il Mostro hanno la stessa pelle. Insieme, formano un’unica figura: Perseo è inglobato dentro le spire del Mostro, che gli si avviluppa intorno come una ruota: in precario equilibrio, la mano sinistra sul collo di quello, deve subire sull’inguine la pressione vagamente oscena del corpo dell’altro. La spada magica nella mano destra, sta per tagliargli la testa. Il mostro digrigna i denti, e lo fissa negli occhi.
Non c’è paesaggio. L’ambiente è ridotto a nuda materia: carne, roccia, acqua, metallo. Non sembra di essere in mare, ma all’interno di uno spazio claustrofobico, mentale. Insomma, grazie all’estetica da fumetto dark, il quadro trasmette minaccia e inquietudine. Il titolo contrasta con l’immagine: l’efebico Perseo sembra inadeguato e nulla suggerisce che possa vincere il Mostro e compiere il suo destino. Anche il messaggio è perturbante. Nessuno è ciò che dovrebbe essere: il maschio e la femmina sono gemelli; il Mostro e Perseo un’entità ambigua; l’eroe è solo la parte emersa dell’essere oscuro che li abita entrambi.
Forse si può essere innovatori senza saperlo e senza volerlo, perseguendo una pittura raffinata ed estetizzante, ignara delle asprezze dell’avanguardia, capace però di aprire spazi di libertà inaudita, lasciando affiorare sulla tela le paure e i fantasmi della psiche. Lottando coi propri demoni segreti tutta la vita, come Perseo. O come Burne-Jones.
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