domenica 14 aprile 2013

Social Network e critica militante


Antonio Di Grado, un italianista aforista 

Raoul Bruni 

"Alias -Manifesto", 24 marzo 2013

Chi voglia tracciare un panorama attendibile della critica letteraria attuale non può assolutamente evitare di fare i conti con i social network, e in particolare con facebook. Non solo perché quasi tutti i principali lit-blog si affidano a questo mezzo, ma anche perché un numero sempre crescente di critici delle più diverse generazioni ha ormai un account su facebook, utilizzato, fra l’atro, per diffondere valutazioni politiche, culturali o più strettamente letterarie. Cosicché, piaccia o meno, facebook è diventato oggi un luogo fondamentale per l’esercizio della critica cosiddetta militante. Tuttavia nessun critico italiano, che io sappia, aveva mai pensato finora di raccogliere in volume i propri “stati”, cioè gli scritti frammentari diffusi attraverso il social network in questione. Ecco perché vale senz’altro la pena leggere Chi apre chiude. Dispacci e cimeli arenati nel web (Le Farfalle, pp. 128) di Antonio Di Grado, italianista di meritato prestigio.
«Lo “stato” di facebook (giacché di questo stato, senza maiuscole e senza balzelli, si tratta)», scrive Di Grado, «è quel davanzale da cui ogni giorno ti affacci per dire la tua sul mondo, per imporre a un distratto uditorio il tuo diario in pubblico, per alternare detti e contraddetti, plausi e botte, paradossi e congetture, amenità e proclami». Quanto alla forma, il limitato numero di caratteri disponibili per gli “stati” non è necessariamente uno svantaggio, anzi (laddove non ci si approfitti questo spazio per pontificare) rappresenta uno stimolo «alla concisione, all’affermazione pregnante, al tagliente insinuarsi del dubbio». Il genere letterario a cui lo “stato” si avvicina di più è, infatti, il frammento letterario, nelle su diverse configurazioni possibili: l’aforisma, il motto di spirito, la maxime dei moralisti francesi (oggi un La Rochefoucauld spopolerebbe certamente su facebook, così come su twitter).
Le pagine del libro Antonio Di Grado, infatti, sono spesso illuminate da scintille aforistiche e da battute fulminanti: «La cosa peggiore che può capitare alle domande è la risposta»; «Tolstoi? Un personaggio di Dostoevskij»; «Abolire l’aggettivo “sperimentale”, comoda scappatoia per non spiegare la diversità di una scrittura o di una tecnica artistica. A un mio collega che lo definiva ‘sperimentale’, Stefano D’Arrigo urlò: “Come si permette? Sperimentale io, che mi sono fatto un culo così?”». Per Di Grado, allergico a certa critica aridamente accademica (non pochi sono gli strali destinati all’oscuro gergo veterostrutturalista giustamente considerato obsoleto), ha trovato in facebook un varco per uscire dalla routine di un’università ormai ridottasi a istituzione asfittica e mercificata.
Se Di Grado non è certo il primo a lamentare il declino dell’università italiana (si pensi alle frequenti polemiche mediatiche contro i “baroni”), egli presenta però il problema sotto una luce nuova, rilevando l’ambiguità di chi denuncia i mali di un’istituzione nella quale, nondimeno, ha in varia misura prosperato: «Edipo indaga sulla peste a Tebe e scopre di esserne responsabile. Allo stesso modo andrebbe condotta ogni indagine critica, ogni ricerca: coinvolgendo e mettendo in discussione l’io che indaga. Quanti studiosi e/o docenti universitari lo fanno?».
In ogni caso Di Grado non parla solo di critica, di letteratura o di università, ma affronta anche questioni politiche, storiche, morali e religiose, declinate quasi sempre in chiave personale, con il frequente ricorso a ricordi autobiografici (sotto questo aspetto, Chi apre chiude si potrebbe leggere come un singolare autoritratto letterario). Pur utilizzando e, per molti aspetti, valorizzando un medium come facebook, l’autore non cede alle facili euforie postmoderniste, anzi, come già in passato Luigi Baldacci (che intitolò una sua memorabile raccolta di saggi Ottocento come noi), afferma di appartenere idealmente più al diciannovesimo secolo che al ventesimo o al ventunesimo: «Il mio secolo elettivo? [...] L’Ottocento di Leopardi e Baudelaire, di Zola e De Roberto, di Dostoevskij e Kierkegaard. L’Ottocento svilito dal secolo miserabile e sanguinario che lo seguì: Marx tradito dal comunismo, Nietzsche dal nazismo, Garibaldi e Cavour da Mussolini e Berlusconi».
Tra le pagine migliori del libro ci sono certamente quelle di tema religioso. Lontana da ogni chiesa, la religiosità di Antonio Di Grado è alquanto inquieta ed eterodossa (vien da pensare al Guido Morselli di Fede e critica, a lui assai caro): ne emerge uno spregiudicato corpo a corpo con i Vangeli, percorsi «con la fiduciosa attesa d’un lettore di romanzi, pronto a lasciarsi suggestionare, meno a elucubrare o a cavarne oracoli». Cosicché il teologo si confonde con il critico, mentre la dimensione del sacro riemerge tra le maglie della Rete.
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