sabato 27 aprile 2013

E Bottai fece infuriare Goebbels


Il culto fascista del diritto romano, inviso al Terzo Reich

Luciano Canfora

"Corriere della Sera",  25 aprile 2013

«Cari camerati, bisogna avere il coraggio che hanno avuto tutte le rivoluzioni: di prendere per il collo i disfattisti, di denunziarli. Perché in Russia l'ambizione dei comunisti è quella di essere della Gpu, in Germania di appartenere alle SS. La rivoluzione spagnola aveva le brigate d'assalto. Ora noi, per causa dei regimi passati, per certe funzioni non siamo in quest'ordine d'idee. È un errore». È la perorazione conclusiva del discorso pronunciato da Mussolini al direttivo del Partito nazionale fascista il 17 aprile 1943, dopo gli scioperi che nel marzo avevano coinvolto varie decine di migliaia di operai nelle fabbriche dell'Italia settentrionale. Ben si conosce l'epos connesso a quella vicenda, che, in ogni caso al di là della sacralizzazione, fu un serio indizio di crisi del regime fascista nel momento in cui la guerra cominciava ad andar male. È merito di Roberto Finzi (Marzo 1943, Clueb, pp. 156) aver ripreso in mano l'intero dossier della vicenda ed aver ripubblicato il testo stenografico del lungo e preoccupato commento di Mussolini, rintracciato quarant'anni fa da Umberto Massola.
Si può osservare che, nel tentativo di rilanciare la lotta al «disfattismo», Mussolini risfodera un tema intermittente, ma mai del tutto dismesso: quello dell'analogia tra le rivoluzioni (bolscevica, nazionalsocialista e fascista). È un tema che fa capolino più volte nella ventennale parabola del fascismo: dalle battute con cui Mussolini interrompe l'intervento di Gramsci alla Camera (16 maggio 1925: «Facciamo quello che fate in Russia!») all'esultanza de «La Verità» di Bombacci (settembre-ottobre 1939) e di Goffredo Coppola sul «Resto del Carlino» (12 e 23 aprile 1940) per il blocco formatosi, col patto russo-tedesco del 1939, fra le tre grandi «nazioni proletarie» contro quelle «plutocratiche», al finale di questo discorso mussoliniano. Esso merita una menzione particolare, giacché il tema delle «rivoluzioni» che si assomigliano viene qui sfoderato mentre ormai l'Asse ha invaso l'Urss e si è consumata, nel febbraio del '43, la disfatta italo-tedesca a Stalingrado.
Questa è solo una delle facce del fascismo, anche se a interpretarla è lo stesso Mussolini. Un'altra, antitetica, è quella della contrapposizione italo-tedesca, che si manifesta quasi nelle stesse settimane degli scioperi e dell'allarmato discorso del Duce. Ne è promotore e protagonista Giuseppe Bottai, allora ministro dell'Educazione nazionale. Si tratta della inaugurazione il 7 dicembre 1942, addirittura a Berlino, di un nuovo istituto, Studia Humanitatis, volto a promuovere, nel nome del primato e dell'attualità del diritto romano — e in polemica implicita col rifiuto nazista di esso —, un «umanesimo moderno» capace di ricongiungere le due culture (umanistica e tecnico-scientifica) sotto il segno della civiltà romano-cristiana, di cui appunto il diritto romano costituirebbe il più duraturo monumento.
L'orazione di apertura, a Berlino, la tenne Bottai e il pezzo forte scientifico fu l'amplissima lezione di Salvatore Riccobono De fatis iuris Romani (sulla ricezione del diritto romano), pronunciata in un magnifico latino davanti ad un irritato «Gotha» del Terzo Reich. «Goebbels è irritatissimo» commenta Enrico Castelli nel suo Diario e Rosenberg ha soggiunto: «È passato il nemico. L'Istituto Studia Humanitatis è una longa manus del Vaticano». E Goebbels nel Diario: «È evidente che gli italiani stanno tentando di accampare diritti al predominio spirituale in Europa». Merito di aver ricostruito l'intera vicenda è di un agguerrito romanista di Milano, Ugo Bartocci, nel recente volume Salvatore Riccobono, Il diritto romano e il valore politico degli «Studia Humanitatis (Giappichelli, pp. 154).
È notevole come in Italia venisse messa la sordina a questa controversa incursione «umanistica» a Berlino: Bottai fu costretto a parlarne lui stesso in un editoriale di «Primato» del 15 gennaio 1943. Nessuno dei protagonisti della vicenda poté, o volle, complicare il quadro osservando che la lotta del nazionalsocialismo contro il diritto romano avrebbe potuto vantare un antecedente illustre e imbarazzante (per tutti) negli scritti di Engels (Storia e lingua dei Germani, testi raccolti ed editi molti anni fa per gli Editori Riuniti da Paolo Ramat), dove ugualmente l'imposizione del diritto romano al mondo germanico è vista come fenomeno di una violenza dominatrice. Questo tassello avrebbe creato un ulteriore cortocircuito tra le «tre rivoluzioni».
Aporie del genere si creano soprattutto quando si fa ricorso all'ambiguo concetto di «popoli proletari», o «nazioni proletarie»: le quali possono continuare a proclamarsi tali e nondimeno giungere a farsi la guerra tra loro, come accadde nel cruciale biennio 1939-1941. Cimentarsi con quella storia è un compito che sta tuttora davanti agli studiosi che vorranno, si spera, liberarsi via via dall'ottica deformante delle varie storie «sacre» in conflitto e inevitabilmente foriere di confusione e, alla lunga, di paralisi della conoscenza. Un monito straordinariamente efficace, in direzione di una storia «vera» (secondo il motto di Hobsbawm che Finzi pone in esergo del suo libro) viene da un bellissimo saggio di Ivan Jablonka uscito di recente per «Le Scie» di Mondadori: Storia dei nonni che non ho avuto. Uno storico sulle tracce della propria famiglia scomparsa ad Auschwitz (pp. 348).
Il libro descrive il cammino negli archivi d'Europa e d'America che l'autore, docente di storia in Francia, ha compiuto per ricostruire la vicenda biografica dei suoi nonni, a partire dalla loro entusiasmante giovinezza di ebrei bolscevichi, «rivoluzionari di professione», che prese le mosse dal villaggio polacco di Parczew. L'autore spiega efficacemente che cosa significava essere ebreo e comunista («satana scarlatto dal naso adunco») nella Polonia di Pilsudski, così vicina all'Italia di Mussolini e così furiosamente antisovietica. Una condizione di vita ben diversa dalla festosa militanza dei «compagni che vendono "l'Humanité" a Billancourt, nella periferia rossa di Parigi».
Il racconto finisce in tragedia in un mondo in cui la «rivoluzione» nazionalsocialista si avventa contro quella bolscevica perché «ebraica» e trascina con sé quella «mussoliniana» in barba all'umanesimo moderno di Bottai e alla tardiva nostalgia del Duce per le «tre rivoluzioni». Alla fine del libro Jablonka trae una morale profonda e salutare per ogni ricerca storica: «Non ha senso contrapporre scientificità e partecipazione emotiva, eventi esterni e passione di chi li comunica, storia e arte del racconto, perché l'emozione non nasce dal pathos o dall'accumulo dei superlativi: essa scaturisce dalla nostra tensione verso la verità».

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