giovedì 25 aprile 2013

Manet. Una storia italiana


II pittore della modernità a confronto con gli artisti del nostro Rinascimento 

Francesca Montorfano 


"Corriere della Sera", 24 aprile 2013

A fare di Manet il portaIli bandiera di una pittura d'avanguardia, di un'arte capace di sovvertire accademismi e morale borghese in nome di una rappresentazione più viva e disincantata della realtà, era stato il clamore suscitato da un'opera allora ritenuta scandalosa: quel Déjeuner sur l'herbe rifiutato al Salon del 1863, dove una giovane donna nuda siede accanto a due uomini vestiti a conversare, sfidando tranquilla il comune senso del pudore. 
Ma una ancora più accesa indignazione avrebbe provocato quell'Olympia esposta soltanto due anni dopo, che raffigurava non più una nobile cortigiana, secondo un'antica e ben consolidata tradizione, ma ancora la stessa modella, Vìctorine Meurant, tra le preferite del pittore, nel ruolo di una vera e propria prostituta che provocante e sicura di sé fissa negli occhi lo spettatore. Capolavori di una modernità estrema, ma in cui ben si avverte la citazione del passato. Per guardare avanti, per creare un nuovo, più libero linguaggio, Manet ha infatti guardato indietro. E non solo ai grandi maestri spagnoli e olandesi, a Goya e Velazquez, a Rubens e Frans Hals, ma soprattutto a quelli italiani, Tiziano e Tintoretto, Carpaccio e Lorenzo Lotto, Andrea del Sarto o Antonello da Messina. 
A mettere in luce la portata di questo scambio artistico ideale con l'Italia è oggi la grande mostra di Palazzo Ducale a Venezia, curata da Stéphane Guégan con la collaborazione scientifica di Guy Cogeval e di GabrÌella Belli, direttore della Fondazione Musei Civici Veneziani e che presenta 80 opere tra dipinti, disegni e documenti, molti II percorso In nove sezioni l'intera vicenda creativa, dalie nature morte ai ritratti della società francese dei quali prestiti eccezionali. 
«Studiosi e critici d'arte si sono spesso limitati a prendere in esame il rapporto tra la pittura spagnola e quella di Manet. Con questo evento vogliamo invece sottolineare come la cultura del Rinascimento veneto e toscano sia stata la prima fonte d'ispirazione della sua modernità, abbia a lungo influenzato il suo universo poetico. Come tutti i grandi artisti egli si appropria degli antichi modelli, ma li reinventa, giocando liberamente con forme e contenuti, ribaltandone completamente il significato», precisa Cogeval, direttore del Musée d'Orsay, da cui proviene la maggior parte dei capolavori esposti. «È una passione, quella per l'arte italiana, data dagli anni di formazione presso Thomas Couture e dalla frequentazione del Louvre e che Manet coltiverà nei suoi viaggi. Nel 1853, l'anno in cui visita per la prima volta Venezia e Firenze, nel 1857 e infine nel 1874, quando insieme all'amico James Tissot ritorna nella città lagunare e dipinge i riflessi cangianti dei colori e delle luci sull'acqua». 
Se Le Déjeuner sur l'herbe riecheggia il Concerto campestre di Tiziano, sarà proprio l'Olympia, che per la prima volta lascia la Francia ed è collocata — in un confronto senza precedenti — accanto a quella Venere di Urbino che Manet aveva evidenziare le affinità elettive con l'eredità artìstica del grande maestro veneziano. Così come stretto si rivelerà il dialogo tra il Portrait d'Emile Zola e il Ritratto di giovane gentiluomo di Lorenzo Lotto, tra Le Balcon, opera celeberrima che raffigura l'affascinante amica e pittrice Berthe Morisot e le Due dame veneziane del Carpaccio, tra il Bal masqué à l'Opéra e le animate, festose scene di Guardi, che risuonano di musiche e amori mascherati. 
Suddivisa in nove sezioni, la mostra ripercorre l'intera vicenda creativa di Manet, l'artista che pur condividendo le istanze degli impressionisti non volle partecipare a nessuna esposizione del gruppo, ritenendo che solo il Salon ufficiale potesse essere il vero banco di prova, il luogo primi lavori, le nature morte dalla composizione rigorosa, dipinti di atmosfera maggiori poeti e letterati del tempo, la vita sociale della Parigi di Haussmann, con il gusto per il teatro, i caffè alla moda, le corse, le partite di croquet. 
E intanto anche la sua tavolozza cambia, la sua pittura si arricchisce di nuove emozioni. I violenti contrasti di colore si attenuano, mentre la pennellata larga, la stesura corposa e materica si trasformano in un tocco più leggero e vibrante, in un'attenzione nuova alla luminosità e al movimento. nazione sono le trasparenti vedute veneziane, con Le Grand Canal à Venise giocato sui toni del blu cobalto e quella che è forse la sua ultima opera, L'Evasion de Rochefort, dove l'amato tema del mare, la vastità infinita dell'oceano, si intrecciano con l'impegno civile repubblicano. 

Olympia, scandalosa anti-Venere 

Trasformò la creatura di Tiziano in una bruttina senza pudore 

FRANCESCA BONAZZOLI 

Dipinta nel 1863, pochi mesi dopo Le Déjeuner sur l'herbe, ma esposta al Salon solo nel maggio del 1865, l'Olympia di Manet scatenò un vespaio. Non uno dei settanta giornalisti che recensirono il quadro ne parlò favorevolmente: si andava dal paragone con «una specie di femmina di gorilla» fino al più banale giudizio di Gautier: «Qui non c'è niente altro, dobbiamo dirlo, che la volontà di attirare l' attenzione a tutu i costì», frase ancora oggi molto utilizzata dal «buon senso comune». 
Ma non fu solo la critica a scagliarsi contro il quadro; anche il pubblico ne minacciava l'integrità con ombrelli e bastoni tanto che negli ultimi giorni la tela fu spostata «a un'altezza a cui non fu mai appesa nemmeno l'ultima delle croste», scrisse Jules Clarétie ne «Le Figaro» del 23 giugno. A difendere l'opera ci pensarono però due grandi scrittori: Baudelaire e Emile Zola. 
Ma che cosa aveva dato così fastidio a tutti gli altri detrattori? La storia della pittura è piena di nudi femminili, dalle Veneri greche a quelle contemporanee di Courbet, molto più sensuali e viziose. Che cosa c'era nell'Olympia da risultare insopportabile? Il fatto che Manet aveva ripreso quel tema classico per la prima volta in uno «stile moderno», ovvero di totale rottura col passato, creando una rivisitazione aggressiva e sgradevole della Venere. Lo scandalo dell'Olympia era essere programmaticamente brutta. Le Veneri erotiche di Courbet, eredi di quelle in carne dì Rubens, non irritavano perché rimanevano nell'ambito del linguaggio colto accademico. A Manet, invece, non interessava dipingere una bella donna come a tutti gli altri, ma rinnovare la storia della pittura partendo da essa. 
Come già per Le Déjeuner, anche per l'Olympia Manet prende le mosse da un modello antico, la Venere di Urbino di Tiziano, copiata agli Uffizi durante il suo secondo viaggio in Italia. Ma quell'idolo di bellezza ideale si trasforma nelle mani del pittore della modernità, come lo descriveva Baudelaire, in una marionetta «dalle carni frollate», secondo la definizione di Paul de Saint-Victor. Possiamo dunque affermare che l'Olympia di Manet è la prima brutta delle innumerevoli brutte donne che produrrà l'arte moderna, da quelle deformate di Kirchner a quelle cubiste di Picasso agli sgorbi irriconoscibili di De Kooning fino agli esseri ìbridi di Cindy Sherman o delle «body artiste» alla Orlan. 
Zola lo capì lucidamente: «Quando i nostri artisti ci danno delle Veneri, correggono la natura, mentono. Edouard Manet si è chiesto perché non dire la verità; ci ha fatto conoscere Olympia, questa figlia del nostro tempo, che incontrate sui marciapiedi, con le magre spalle strette in uno scialletto di lana stinta». 
Ai contemporanei, la posa delll'Olvmpia doveva apparire più simile a quella delle parigine «perdute» delle foto pornografiche che andavano a ruba nel secondo Impero, che alla Venere di Tiziano, peraltro tirata in ballo dalla critica solo nel 1890. 
Per Manet, invece, il riferimento era diretto (i fiori, la mano, la posa, i cuscini, il materasso), tranne in alcuni importanti dettagli che alteravano il senso dell'immagine. Innanzitutto spariscono le ancelle che in Tiziano sistemano la biancheria nuziale della bella Giulia sposa di Guidobaldo II Della Rovere. Al loro posto compare una donna nera (percepita come sessualmente pericolosa) che porta il bouquet di un ammiratore. E quindi una di quelle serve/mezzane che sì vedevano nella più crassa pittura olandese di genere, ma anche nei dipinti della Danae o di Giudìtta e Oloferne, dove la serva, vecchia e avida, fa il «lavoro sporco» (raccogliere la pioggia d'oro o la testa del condottiero assiro) al posto della bella giovane. Senza dimenticare il riferimento alle schiave nere della pittura orientalista, a cominciare dalle odalische di Ingres. 
Inoltre il cane accucciato ai piedi della Venere di Tiziano, simbolo di fedeltà, viene sostituito da Manet con un gatto, animale lascivo, e per di più ostile e nero, come quelli in cui si pensava si incarnassero le streghe. E ancora non si può trascurare il simbolismo sessuale del piede e delle scarpe, una calzata e l'altra lasciata cadere come una provocazione per dire che questa donna può attirare o respingere, a suo piacimento. Infine Olympia, proposto un anno dopo dal poeta Zacharìe Astrae, era il nome d'arte delle prostitute parigine. Lontana dal tradizionale modello della bella cortigiana, l' Olympia era dunque la più brutta, magra e poco attraente delle prostitute. 


La vita. Nato a Parigi nel 1832 da una famiglia benestante, che cercò di dissuaderlo dallo studio dell'arte, Edouard Manet (a lato, «Autoritratto alla maniera di Tintoretto») si formò presso l'atelier di Thomas Couture, quindi all'Académie sotto la guida di Léon Bonnat. Strinse rapporti d'amicìzia con gli impressionisti, dai quali però si differenziò per idee e scelte artistiche. Si dedicò alla pittura all'aperto, così come a ritrarre la vita sociale dell'epoca, in particolare della borghesia. Insignito della Legion d'onore nel 1881, morì a Parigi nel 1883, a 51 anni, dopo una lunga battaglia contro la sifilide.

Guy COGEVAL, Sedotti (o quasi) da due Veneri, "Il Sole 24 Ore", 21 aprile 2013

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