Firenze. Una mostra a Palazzo Strozzi
Donatello, Masaccio, Filippo Lippi, i Della Robbia
Così scultura e pittura hanno cambiato l'estetica
Marco Gasperetti
"Corriere della Sera", 28 aprile 2013
È l'inizio. Che si ricompone come un puzzle di tesori. Capolavori oggi custoditi al Louvre, al British Museum, al Bode di Berlino, e in altre gallerie del mondo e dell'Italia. Sono messaggeri della rinascita del Bello, della sua genesi e della sua affermazione. Ma ci raccontano anche un'altra storia: l'alba del Rinascimento non comincia con la pittura, bensì con la scultura.
Nelle sale immaginifiche di Palazzo Strozzi, nel cuore di Firenze a due passi da Piazza della Signoria, dal Ponte Vecchio e dagli Uffizi, «La Primavera del Rinascimento» ci proietta alle origini dell'epoca più formidabile delle arti e della cultura, in quella Firenze che avrebbe cambiato il mondo guardando all'iperuranio dell'estetica (si respira aria di neoplatonismo nelle dieci sezioni) e regalando al mondo opere immortali. Ed è una sensazione molto particolare, dopo aver varcato la soglia del Palazzo, trovarsi di fronte a quelle origini, quasi come se fossero esplosioni di un Big Bang della Rinascita. Che immediatamente osservi, appena t'immergi nel cuore di Firenze.
Così, entrando nella prima sala dedicata a «L'eredità dei padri», ecco il proto linguaggio scultoreo (dell'arte rinascimentale) di Nicola Pisano che vive nel medioevo è firma alcune delle opere più straordinarie (dal Duomo di Siena al Battistero di Pisa), e poi in un cammino nel tempo l'alfabeto si modifica sino ad arrivare a Jacopo della Quercia il Maestro del monumento funebre di Ilaria del Carretto.
E come non emozionarsi (e stupirsi) varcando la seconda sala, quella dei rilievi dei Sacrificio di Isacco, che due giganti, ancora giovanissimi, Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti realizzano per il concorso del 1401 per la seconda porta del Battistero di Firenze? Certo, c'è ancora molto gotico nelle loro anime estetiche, ma il nuovo linguaggio è ormai robusto e si proietta verso un futuro luminosissimo. Ed è un presenza emanatrice in quella sala così sapientemente allestita. Le emozioni si susseguono poi più avanti nelle altre otto sezioni di una mostra apparentemente semplice eppure così sofisticata da essere lei stessa un capolavoro d'estetica costruttiva.
«Non era difficile scivolare nell'ovvio raccontando un'epoca oggi osservata da ogni angolazione, studiata nel minimo dettaglio — spiega James M. Bradburne, il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi —. Eppure abbiamo scoperto che il rischio dell'ovvietà non c'era affatto. La mostra racconta il miracolo della genesi del Rinascimento, dimostrando che dalla scultura tutto iniziò, con prestiti eccezionali. Dopo Firenze sarà replicata al Louvre di Parigi, che l'ha organizzata insieme a noi, ed è un evento straordinario ed irripetibile».
Già, la scultura, come motore della Rinascita. Che ci abbaglia con Donatello e la Madonna col Bambino, una terracotta dipinta; e ci sorprende, sempre con Donatello, con il gigantesco bronzo San Ludovico di Tolosa appena restaurato. Oppure ci mostra il nuovo linguaggio con le terrecotte invetriate di Luca della Robbia.
Scultura che non è fine a se stessa nella mostra fiorentina, ma ci accompagna verso la scoperta di altre opere, anch'esse rappresentative del racconto dell'estetica rinascimentale. Come il preziosissimo Vaso con stemma ed emblema dei Medici, concesso eccezionalmente dal British Museum e l'icona del Bode-Museum di Berlino: La Madonna Pazzi di Donatello.
Come non citare poi altri giganti della mostra Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Masaccio, Filippo Lippi, Michelozzo, Desiderio da Settignano, Mino da Fiesole, Nanni di Banco, Agostino di Duccio, Nanni di Bartolo, Mino da Fiesole.
«Molti dei capolavori presenti alla "Primavera del Rinascimento" sono stati restaurati in occasione della mostra, in Italia e in Francia. — spiega la direttrice del Museo nazionale del Bargello, Beatrice Paolozzi Strozzi, curatrice della mostra insieme a Marc Bormand, conservatore e direttore del Louvre —. Tra questi, oltre al San Ludovico di Tolosa, la Pala Trivulzio di Filippo Lippi, i due Putti bronzei di Donatello, la Sant'Elena di Mino da Fiesole, la Madonna della Misericordia di scuola Ghibertiana, l'Incoronazione della Vergine di Dello Delli e Madonna di Ognissanti di Nanni di Bartolo a Firenze».
Dunque una nuova Primavera anche per queste opere. Che fiere e stupende ci raccontano una storia passata ma sembrano guardare in avanti, enigmatiche. E se proprio da questa mostra partisse un'altra Rinascita?
Creatori e non più artigiani Brunelleschi guidò la «rivolta»
La cupola del Duomo di Firenze simbolo dell'artista-intellettuale
Francesca Bonazzoli
Il 20 agosto 1434 Filippo Brunelleschi, genio di pessimo carattere e ribelle alle leggi con cui la città di Firenze regolava la vita dei propri cittadini, fu gettato in prigione. Si era rifiutato di pagare i tributi all'Arte dei maestri di pietra e legname, la corporazione cui appartenevano tutti i lavoratori edili (architetti e scultori stavano insieme a tagliapietre e muratori) e alla quale bisognava essere iscritti per poter esercitare la professione. La prigionia durò poco perché l'Opera del Duomo, capito che, per quanto dispettoso e ostile, Brunelleschi era l'unico capace di portare a termine il progetto della cupola più grande mai costruita, lo fece liberare. Ma lo strappo era ormai avvenuto. Con quella clamorosa ribellione era cominciata, proprio lì a Firenze, l'inizio della lunga marcia d'emancipazione dell'artista da artigiano a creatore, uno dei segni che più hanno connotato il passaggio dal Medio Evo al Rinascimento.
Dai tempi della Grecia del IV secolo a. C. era la prima volta che l'attitudine verso gli artisti tornava a cambiare. In greco arte, che si dice téchne, era l'esecuzione ben condotta secondo le norme e i canoni del mestiere, una pratica artigianale in cui ci si applicava ripetendo certe regole. Tuttavia, quando alcuni artisti, come Teodoro di Samo o Policleto, cominciarono a scrivere trattati sulle proporzioni del corpo, l'aritmetica o la geometria, si cominciò a nobilitare l'arte come una professione intellettuale e non più solo uno sporco lavoro manuale, come quello che spettava agli schiavi. Zeusi, diventato ormai ricco e famoso, regalava le sue pitture per dimostrare che non era costretto a guadagnarsi la vita col lavoro delle mani. E da parte sua Parrasio, che si firmava «Uno che visse nel lusso», indossava una veste di porpora, sandali con lacci d'oro e cantava durante il lavoro come a dire che la pratica dell'arte non era faticosa.
Tuttavia il pregiudizio verso l'attività fisica degli artisti era duro a morire e anche in Grecia le arti visive rimasero sempre escluse dalle arti liberali. Lo stesso avvenne nella Roma antica e per tutto il Medio Evo la maggioranza degli artisti si accontentò di far parte della propria corporazione, o della fabbrica di una cattedrale, come un membro anonimo operante a maggior gloria di Dio. Certo c'erano state le eccezioni come Rainaldo, che si autoelogia nella cattedrale pisana, o Lanfranco in quella di Modena. Ma persino Boccaccio, pur stimando Giotto, se ne burla descrivendolo come uno straccione e nel Decameron i pittori sono soprattutto furbi autori di scherzi, gente crassa.
Il moto di orgoglio e insubordinazione del Brunelleschi affermava dunque la consapevolezza dell'originalità del proprio intelletto creativo, un'attitudine completamente diversa dall'appagamento della perfezione tecnica del proprio lavoro. L'artista passava così dal rango di lavoratore manuale a quello di intellettuale e si impegnava nella scrittura di trattati e persino, come fecero Cennino Cennini e l'Alberti, a dare regole di vita elegante e morigerata nel mangiare, nel bere e nel vestire. Gli artisti toscani, insomma, si stavano trasformando in gentiluomini.
Certo Brunelleschi, come Leonardo, partiva da un livello sociale diverso perché entrambi erano figli di notai, mentre la gran parte proveniva ancora dai ceti popolari. I Ghiberti si tramandavano il lavoro di orafi nella bottega di famiglia; Paolo Uccello era figlio di un barbiere; Pollaiuolo di un pollivendolo; Andrea del Castagno di un contadino; Donatello di un cardatore di lana; Filippo Lippi di un macellaio. Ma Brunelleschi indicava la strada della consapevolezza di sé a tutti gli ex ragazzini che avevano trascorso molti anni uguali — si cominciava a dodici — nelle botteghe a macinare colori, dorare le cornici, copiare i disegni, preparare il fondo delle tavole, inchiodare cassoni nuziali. Il lavoro nelle botteghe era organizzato in modo rigidamente gerarchico nei ruoli e nelle modalità di apprendimento. La ribellione alle corporazioni era l'insofferenza verso questo vecchio mondo. Leonardo diventerà il primo a trasformare il suo studio da bottega ad atelier dove gli allievi erano compagni, come farà poi Raffaello.
La strada era tracciata, ma ancora molto lunga. Un secolo dopo il gesto di Brunelleschi, Vasari, un altro fiorentino, continuò nell'impresa di nobilitare gli artisti scrivendone le vite come si faceva per le biografie dei condottieri. Ma ancora all'inizio del Seicento Annibale Carracci cadeva in depressione, fino a morirne, perché lo spezzante cardinal Farnese gli pagò una miseria, quasi come a un imbianchino, il capolavoro affrescato nella volta del suo palazzo.
«Una strategia politica dietro il modello di libertà civica»
Barbuto: la luce degli ideali classici contrapposta all'oscurantismo dei Visconti
Roberta Scorranese
Nel definire una delle maggiori invenzioni artistiche nella Firenze del Quattrocento, la prospettiva, lo storico Erwin Panofsky parlò di «ordine simbolico», un sistema di regole elaborate per «guardare attraverso». I quadri così diventavano essi stessi finestre per osservare oltre la tela, le statue erano percorsi conoscitivi. Il critico tedesco era andato dritto al cuore politico e culturale dell'epoca: Firenze era un laboratorio di conoscenza e sperimentazione, rivendicava una grandezza civile e sociale che guardava ai valori dell'antica Roma e alla Atene classica.
La florentina libertas, all'inizio del secolo con Coluccio Salutati, veniva contrapposta alla «tirannia» di Gian Galeazzo Visconti e brandita come arma antioscurantista. «Il conflitto tra la città toscana e i signori milanesi veniva rappresentato come una guerra universale per la libertà culturale — spiega Gennaro Maria Barbuto, docente di Storia delle dottrine politiche all'università di Napoli —. E anche la struttura sociale dell'epoca, dominata da oligarchie forti e ambiziose, favoriva un'arte dal valore simbolico». Le statue, le sculture imponenti, prima di tutto, come si può vedere nella mostra a Palazzo Strozzi. Ma anche la pittura di Masaccio: profondità, unità razionale, psicologia. Non casualmente Vasari lo cita insieme a Donatello. «La strategia culturale dei Medici, che raggiungerà in seguito il suo culmine con Lorenzo il Magnifico — continua Barbuto — cercava e finanziava artisti anche umili ma controllabili, assimilabili ad un pensiero molto forte. Egemonia culturale, la definirei».
E poi in quegli anni si consolidava una diffusa gestione del potere (anche e soprattutto privato) che Machiavelli analizza nelle sue «Istorie Fiorentine». La forza politica delle famiglie richiedeva una corazza specialistica: esperti di diritto, notai, legali e altre figure professionali andarono a rafforzare un notevole sapere professionistico, tutt'altro che sterilmente tecnico. «Non dimentichiamo — dice ancora il professore, autore di una recente biografia su Machiavelli — la rivoluzione anti-scolastica degli umanisti. Ribellandosi al vecchio sistema dei saperi, aprirono le porte non solo a nuove ricerche, scientifiche e letterarie, ma anche ad un vero e proprio linguaggio inedito». Si passò dal concetto di «mondo chiuso» a quello di «Universo infinito», l'Accademia Neoplatonica di Marsilio Ficino diffuse il paradigma dell'idea come fondamento di un sistema creativo che pensava in grande perché partiva da consistenti valori di fondo. La fisica di Aristotele e le sezioni coniche di Apollonio di Perga non potevano non influenzare la scultura fiorentina di quel periodo.
Un individualismo di matrice oligarchica aveva soppiantato il collettivismo artigiano di tipo corporativo del Duecento e di parte del Trecento. «Ma soprattutto — dice Barbuto — sono interessanti le compresenze. Accanto a un grande intellettuale senese come Angelo Poliziano, troviamo personalità bizantine, greche. Era una cultura che riusciva ad alimentarsi, a fondere le visioni di Aristotele con quelle di Plotino. Così la coscienza civile si nutriva di grandi interrogativi».
È così evidente che la grandezza politica fiorentina del Quattrocento nasce da una dialettica tra pubblico e privato. E da una lenta, sistematica, organizzazione professionale del potere che Machiavelli, nei suoi saggi, ha sviscerato con passione. «Certo, le differenze sociali erano e restarono ampie — conclude il professore — però si apriva una nuova modernità».
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