mercoledì 24 aprile 2013

Hannah e le sue sorelle nelle cicatrici del Novecento


Il nuovo libro di Nadia Fusini racconta gli intrecci tra Arendt, Weil e Bespaloff

Roberto Esposito

"La Repubblica",  23 aprile 2013

A pochi mesi di distanza, nel 1939, due donne in fuga dall’uragano nazista, Simone Weil e Rachel Bespa-loff, si trovano al museo di Arte e storia di Ginevra, davanti alle opere di Goya, salvate per un soffio nella Madrid assediata dalle falangi franchiste. Esse guardano, probabilmente, la stesa tela, quella che rappresenta la fucilazione di alcuni patrioti spagnoli da parte delle truppe napoleoniche. Lo sguardo trascorre dal cranio spappolato di un uomo a terra, immerso nel proprio sangue, alla ottusa sincronia dei fucilieri allineati in procinto di sparare. Ma l’attenzione delle due donne sarà stata catturata dagli occhi spalancati del prigioniero in camicia bianca, braccia allargate a croce, che sta per essere colpito. Cosa grida quello sguardo allucinato fisso nel vuoto? Come vive gli ultimi attimi la vittima inerme di una violenza destinata a tramutarla in un grumo di carne senza vita? Quale enigma custodisce l’ultima vibrazione di un corpo che sta per diventare cosa? Intorno a tali domande ruota la straordinaria trama attraverso cui Nadia Fusini interroga la relazione “stellare” che unisce, a distanza, il destino di tre donne senza le quali il Novecento non sarebbe tutto ciò che è stato.
La terza protagonista, il cui nome dà il titolo al libro — Hannah e le altre, appena edito da Einaudi — è Hannah Arendt. A collegarle in una catena di corrispondenze sorprendenti non sono solo alcuni luoghi in cui i loro destini si incrociano — Parigi, Ginevra, New York —, ma anche amicizie comuni, come quella con Jean Wahl, vero “mediatore” delle loro esperienze e, soprattutto, testi decisivi che calamitano la loro scrittura. In particolare l’Iliade, cui Simone Weil e Rachel Bespaloff — ebrea di origine ucraina, la cui biografia spirituale è ricostruita da Laura Sanò (Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff, introdotto da Remo Bodei e pubblicato dall’Istituto italiano per gli studi filosofici) — hanno dedicato due scritti di rara intensità. In entrambi, la forza «appare la suprema realtà e la suprema illusione dell’esistenza», come scrive la Bespaloff (il suo testo è ora riedito da Castelvecchi).
Suprema realtà, perché onnipresente — la forza lacera, penetra, schiaccia senza remissione, come sperimentano gli uomini travolti dalla guerra di Troia e da tutte le altre che l’hanno seguita. Ma anche suprema illusione perché, come ogni cosa umana, a sua volta destinata a essere annientata da una potenza ancora maggiore cui nessuno può sfuggire. «Su questa terra non c’è altra forza che la forza. Questo potrebbe essere un assioma. — così Simone sembra rispondere, dalla più prossima delle lontananze, a Rachel — In quanto alla forza che non è di questa terra, il contatto con essa si paga a prezzo di un transito attraverso qualcosa che somiglia alla morte» (La prima radice).
Se l’Iliade sembra stringere in un unico destino l’ebrea francese, morta per denutrizione nel ’43, e l’ebrea ucraina, morta suicida nel ’49, Kafka è l’autore che le mette entrambe in rapporto ad Hannah. Certo diversa — assai più solare è la esperienza di questa, rispetto alle prime due. Come diversi sono il suo aspetto e il suo atteggiamento. Con la postura un po’ “marziana” — anche nel senso guerriero del termine — di Simone e la bellezza sfuggente di Rachel, contrasta il piglio, sicuro e sfrontato, di Hannah, pronta, sigaretta tra le dita, ad affrontare, scandalizzandolo, chiunque attivasse luoghi comuni. Al malheur che sembra perseguitare come una cattiva stella le prime due, risponde la fortuna della terza — salva per miracolo dai nazisti, amata dagli uomini, circondata, ancora viva, da una fama non attutita dalle polemiche innescate dalle sue opere, come il famoso reportage sul processo Eichmann. Ma non si tratta che del versante luminoso di una consapevolezza assai tesa del male da cui il secolo è stato preso alla gola. Di tale precipizio il Castello di Kafka porta, inscritte, tutte le cicatrici, come il corpo suppliziato del suo racconto Nella Colonia penale.
Cosa altro rappresenta l’incantesimo che incatena K. a una necessità inesplicabile, se non la prefigurazione della peste bruna che sarebbe penetrata di lì a poco nelle vene della civiltà europea?
In questo gioco di specchi incrociati Nadia Fusini entra con un’intelligenza e una forza di scrittura non inferiore a quella delle “sue” donne. Non solo Hannah, Rachel e Simone, ma anche Virginia Woolf e Irène Némirovsky, morta nel campo di Birkenau nell’estate del ’42, e, prima ancora, Katherine Mansfield e Rahel Levin, protagonista della biografia arendtiana. Non troppo, e a volte poco, lega le loro vite, e le loro morti, singolari come quella di ciascuno. Ma c’è qualcosa che Nadia definisce «the woman’s angle», l’angolo della donna, che appartiene a tutte loro. Si tratta di un asse prospettico, obliquo e profondo, capace di vedere qualcosa che di regola gli uomini non colgono nella violenza. Perché ne sono spesso i soggetti, prima o più che oggetti. Essi non guardano alle vittime dal punto di vista di queste. Perciò non riescono a leggere il messaggio, muto eppure vibrante, che libera lo sguardo stravolto del prigioniero fucilato di Goya. È esso che sa fissare, invece, senza indietreggiare, insieme alle sue donne, Nadia Fusini.

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