Giambattista Tiepolo, L’educazione di Maria (1732), Venezia, Santa Maria della Fava |
Melania Mazzucco
"La Repubblica", 21 aprile 2013
A Venezia, dietro Rialto, si apre un campo dominato dalla facciata di mattoni, incompiuta, di una chiesa settecentesca: Santa Maria della Consolazione – o piuttosto, dal nome del rio che vi scorre, Santa Maria della Fava. È lì, sul primo altare a destra, che ho cominciato a capire Tiepolo. Pittore elusivo e prolifico, l’avevo sempre ammirato con l’impressione che, di lui, mi sfuggisse l’essenziale. Si tratta di una pala di dimensioni ragguardevoli (più di tre metri e mezzo per due). Non sappiamo da chi gli venne commissionata. Certo Tiepolo impiegò poco tempo a realizzarla: la sua velocità esecutiva era prodigiosa.
Il quadro raffigura una ragazzina vestita di luce, in piedi su una pedana, sulla terrazza recintata da una balaustra a colonnette di un edificio di cui s’intravede solo un pilastro con capitello ionico. Il volto serio, malinconico e senza sorriso illuminato da una celestiale luce incandescente, la ragazzina indica, col dito, un rigo sulla pagina di un volume che pare sospeso in aria (o forse sorretto da tre cherubini) a una donna anziana, dal naso adunco, il volto naturalisticamente ragnato di rughe. Un vecchio barbuto prega a mani giunte, il viso rivolto verso l’alto. Sopra di loro, invisibili ai protagonisti, tre angeli di disarmante bellezza. La ragazzina è Maria, gli anziani Anna e Gioacchino, suoi genitori. Il titolo recita: L’educazione di Maria.
Il soggetto dell’educazione di Maria, inconsueto nel Rinascimento (ricordo Pinturicchio, Pomarancio e un toccante affresco di scuola romana nella chiesa di Sant’Onofrio a Roma), acquistò crescente popolarità nel corso del ’600. Quando, anche se l’educazione delle fanciulle rimase trascurata e trascurabile, si svilupparono congregazioni dedite all’educazione dei fanciulli – e tra queste in particolare gli Oratoriani, titolari della chiesa della Fava. Tiepolo comunque era già affascinato dal tema, e ne realizzò almeno tre varianti preliminari. Questa dovette ritenerla perfetta, perché mai in seguito riprese l’argomento.
Dell’educazione di Maria tacciono i Vangeli canonici, e gli apocrifi introducono la leggenda della Presentazione: consacrata a Dio, la Vergine bambina sarebbe stata affidata da Anna e Gioacchino ai sacerdoti, ed educata fino alla pubertà nel Tempio di Gerusalemme, dove la servivano e la nutrivano gli angeli. I padri della Chiesa promossero invece una versione diversa: fu educata in casa, dai suoi genitori. Ma i suoi veri pedagoghi furono la Grazia e il Verbo. Ora, nella pala di Tiepolo come nelle altre, il fulcro dell’educazione casalinga di Maria è la lettura. Maria legge. Le Sacre Scritture, s’intende. Tuttavia, per un popolo di non-lettori incalliti come il nostro, l’immagine di una ragazzina che legge acquista una forza simbolica che travalica il suo significato letterale.
Nel 1732 Tiepolo, trentaseienne, è già “pittore celebre”. Si è presto emancipato dal suo maestro Lazzarini, ha bordeggiato la pittura “tenebrosa” tardobarocca, ha sbalordito per capacità d’invenzione e virtuosismo tecnico; ha decorato soffitti di ville e palazzi con affreschi storici e profani; è stato chiamato da farmacisti e aristocratici antichi o recenti, dal doge e dal vescovo. In questa pala si confronta col rivale poco più anziano, Piazzetta, che ha già digerito e superato. Forse per rispettoso omaggio, forse per maliziosa sfida, o forse per dovere: alla Fava, la pala più grande era di Piazzetta. Tiepolo dipinge la propria usando i toni bruni e il chiaroscuro deciso dell’altro, presta ai suoi personaggi il plasticismo e le fisionomie di quello. Ma Tiepolo assorbe ogni suggestione dai contemporanei per trasformarla in qualcosa di irriducibilmente suo. E non sono solo la luminosità intensa e i colori – nell’armonizzare i quali, mediante il contrapposto, diverrà insuperabile. Qui dei futuri, preziosi colori tiepoleschi appare soltanto il blu di Prussia del manto di Maria, il bianco avorio dell’abito e della nube che l’avvolge, e la raffinatissima gamma dei gialli, culminanti nella seta del cuscino su cui si appoggia l’angelo dalle ali spiegate. E dei cieli che dipingerà come nessuno c’è solo uno spicchio azzurro.
È la grazia austera che compenetra e lega i gesti, l’assenza di espressione dei volti, la sospensione di significato. La scena di pedagogia domestica richiesta al pittore diventa infatti un mistero allusivo e segreto. Assistiamo a un evento che è anche un miracolo: è l’invisibile che si manifesta. Qualcuno sta insegnando a leggere a Maria: e non è sua madre. Non sono neppure i tre angeli che guardano la scena. Corporei, quasi pagani, questi angeli torneranno in molte altre opere di Tiepolo. La loro presenza non è funzionale all’azione. Sono dei mediatori del soprannaturale, che consentono alla bellezza di farsi visibile. Ma il loro messaggio non sarà raccolto. Negli anni Trenta del ’700 i veneziani non credevano più agli angeli, e la pittura religiosa stava per eclissarsi: la pala della Fava è l’estrema visione di una tradizione sacra agonizzante. Presto la pittura diventerà altro. Esibizione di ricchezza, fasto e potere, allegoria di se stessa. E Tiepolo avrebbe finito per lasciare la sua Venezia e inseguire in tutta Europa la gloria che quella nuova pittura frivola e lieve prometteva.
Gli angeli della Fava già prendono congedo dagli uomini: d’ora in poi, non creduti e superflui, osserveranno la loro vita dall’alto, con un’indifferenza languida che è già sintomo di estraneità. E Tiepolo sarà, forse, con loro. Nulla sappiamo della sua vita intima o dei suoi pensieri. La sua biografia è la sua opera. La sua pittura perderà contatto con la realtà e con la storia, e non vorrà offrire significati né essere vera – diventerà un teatro, una mascherata, un sogno dolce, una festa per gli occhi e per i sensi: ma lui sarà, come i suoi angeli, altrove.
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