L’arte antica dei sapienti
Maurizio Bettini
"La Repubblica", 4 aprile 2013
Nell’opera di Plutarco “Il Convito dei Sette” è lo spartano Chilone a sostenere che lo Stato ideale è quello in cui si dà più ascolto alle leggi e non a chi è più bravo a parlare in un simposio
Per esser ritenuti saggi bisogna possedere la “saggezza”. Ma in che cosa consiste propriamente questa virtù? I Greci la definivano sophìa, una parola che suscita immediatamente echi di dialoghi socratici e visioni di barbe filosofiche. Ma non è proprio così. La prima volta che incontriamo la parola sophìa, infatti, nell’Iliade di Omero, essa viene usata per definire l’abilità tecnica del carpentiere che grazie all’uso della squadra (e ai consigli di Atena) riesce a tagliar dritta la trave su cui lavora. La sophìa ha dunque la propria origine nella capacità pratica, e consiste in definitiva nel saper fare al meglio il proprio mestiere – tanto quello del carpentiere o del marinaio, quanto quello del filosofo o del legislatore. In questa visione antica della saggezza c’è indiscutibilmente una grande saggezza: il rifiuto di separare la profondità del pensiero dalla pratica delle cose concrete.
I Greci ebbero innumerevoli saggi di cui vantarsi, ma dato che amavano redigere elenchi, vollero comporne uno anche riguardo a costoro, individuandone i sette più grandi. I loro nomi variano nella tradizione, ma la profondità delle loro affermazioni rimane costante. Basta ricordare quelle che Plutarco riferisce in un immaginario dialogo che porta per l’appunto il nome di Convito dei sette sapienti.
Vi presero parte Solone, colui che dettò le leggi agli Ateniesi, Biante di Priene, oratore e poeta, Talete di Mileto, filosofo e matematico insigne, Anacarsi, il saggio Scita esperto del mondo, Cleobulo, tiranno di Lindo, Pittaco, tiranno di Mitilene e Chilone spartano. I temi affrontati al simposio, fra un enigma e una coppa di vino, furono molti, ma ce n’è uno che risulta oggi di straordinaria rilevanza. Dopo aver discusso su quali fossero le qualità più importanti per un re, infatti, i sette si posero il problema di quale fosse il miglior stato democratico. A questa cruciale domanda Solone rispose così: «Quello nel quale l’ingiustizia viene punita con la stessa severità da chi l’ha subita e da chi non l’ha subita». Biante: «Quello in cui si teme la legge alla stesso modo in cui si teme un tiranno ». Talete: «Quello in cui non ci sono né cittadini troppo ricchi, né cittadini troppo poveri». Anacarsi: «Quello in cui il rango più alto è assegnato in base alla virtù, il più basso in base al vizio». Cleobulo: «Quello in cui i cittadini temono il disonore più della legge». Pittaco: «Quello in cui i malvagi non possono ottenere alcuna magistratura, mentre gli onesti non possono esimersi dall’esercitarne una». E infine Chilone: «Quello in cui si dà più ascolto alle leggi che non a chi è bravo nel parlare».
Sembra peraltro che i celebri saggi lo fossero a tal punto, da sapere anche di non esserlo abbastanza. E anche questo risulta, nella circostanza che stiamo attraversando, di singolare attualità – o forse sarebbe meglio che non fosse così? Si narrava dunque che un giorno, a Mileto, nella rete di alcuni pescatori fosse comparso un tripode. Nacque perciò una discussione su chi dovesse possederlo, finché i Milesi (come c’era da attendersi) mandarono a consultare l’oracolo di Delfi. Apollo dette questo responso: il tripode sia assegnato a colui che eccelle nella sapienza. I Milesi lo consegnarono a Talete, ma costui a sua volta, ritenendo di essere indegno di tanto onore, lo diede a un altro sapiente, e questo a un altro ancora, fino a che esso fu assegnato a Solone. Ma Solone affermò che primo nella sapienza non poteva che essere il dio, Apollo, da cui tutto era cominciato. E lo rimandò perciò a Delfi.
Nessun commento:
Posta un commento