Le affinità elettive tra il racconto dello scrittore russo e il romanzo di Tomasi
ADRIANO SOFRI
"La Repubblica", 15 APRILE 2013
C’è un gran ballo a palazzo. La giovinetta più bella danza solo col suo innamorato, seguita dallo sguardo affettuoso di un uomo anziano e autorevole. Ecco che la reginetta della festa va a invitare l’uomo anziano a ballare con lei, e insiste dolcemente finché lui, riluttante, accetta: ora tutti gli sguardi sono per loro. Dove siamo? A palazzo Gangi, al ballo del Gattopardo, diranno subito i miei lettori. No: siamo in un racconto breve di Tolstoj, Dopo il ballo.
L’ho riassunto qui recensendo il bel romanzo di Clara Uson, La figlia (5 aprile).
Ora vorrei mettere a confronto i due balli, quello del conte Tolstoj e quello del principe di Lampedusa (e soprattutto del conte Luchino Visconti). Tomasi scrisse il capitolo sul ballo tardi: non era compreso nella copia inviata (invano) agli editori. È diventato il brano più famoso del romanzo, che uscì postumo nel 1958. Nel film che ne trasse Visconti, uscito nel 1963, la scena del ballo è di gran lunga la più importante, e copre un terzo dei 185 minuti dell’edizione restaurata. Col ballo il film finisce, mentre il romanzo continua per altri due capitoli e copre un periodo ulteriore di mezzo secolo, fino al 1910.
Nel racconto di Tolstoj, un uomo racconta un episodio di gioventù che ha mutato la sua vita. C’è un ballo, lui è innamorato della bellissima Varen’ka. «Lei ha diciotto anni e un aspetto regale, se non fosse per il sorriso carezzevole, sempre gioioso [...] L’ammiravano gli uomini e anche le donne, benché lei le mettesse tutte quante in ombra». Dopo la cena, Varen’ka persuade il colonnello suo padre a danzare con lei. Il padre è un signore vecchio stile, alto e ancora prestante. Il volto dal colorito acceso, baffi bianchi arricciati, favoriti che congiungono i baffi alle tempie, capelli pettinati in avanti. «Il colonnello cercava di schermirsi, dicendo di aver disimparato a ballare [...] Quando il motivo della mazurka cominciò, batté energicamente un piede a terra [...] Il salone intero seguiva ogni mossa della coppia». Alla fine, tutti applaudono fragorosamente. Presto il colonnello bacia teneramente la figlia e la riporta dal narratore, e si accomiata, scusandosi coi suoi doveri. D’ora in poi tutte le danze sono per la bella coppia, fin quasi all’alba.
Rientrato, il giovane è troppo emozionato per prender sonno: torna a camminare, e ode il sinistro rullo di un tamburino e il suono acuto di un piffero che precedono un corteo nero di soldati, che puniscono un tartaro che ha cercato di disertare. L’uomo è nudo fino alla cintola, si contorce in tutto il corpo, i piedi nella neve, e i colpi gli piovono addosso. Accanto gli cammina un ufficiale dalla fisionomia familiare. «Era il padre di lei, con il suo viso roseo e i baffi e le fedine...». Il disertore, con la schiena scorticata, implora pietà, ma colpiscono più forte. Tutt’a un tratto il colonnello si avvicina a uno dei soldati. «Adesso ti insegno io come si fa a picchiare », e grida: «Fate portare nuove sferze!». Quando incrocia lo sguardo del narratore, finge di non riconoscerlo.
Vediamo i richiami più immediati fra il racconto e il romanzo. C’è il ballo, la giovane radiosa che attira su sé tutti gli sguardi, il suo bel cavaliere, il colonnello padre di lei di là, il principe zio di lui di qua. In ambedue gli uomini anziani cedono all’invito insistente della più bella. Anche Angelica e il principe suscitano l’ammirazione di tutti, che smettono di ballare per guardarli. «A un certo punto Angelica e lui ballavano soli». Nel racconto, un applauso saluta la fine del ballo. Nel romanzo,
«un applauso non scoppiò soltanto perché Don Fabrizio aveva l’aspetto troppo leonino perché si arrischiassero simili sconvenienze». Nel racconto, il ballo è una mazurka. Nel romanzo, Angelica invita alla mazurka, ma il principe declina: «Figlia mia… la “mazurka” no, concedimi il primo valzer». E l’osservazione sul «ballo da militari, tutto battute di piedi e giravolte » sembra fare il verso al tostoiano «sbattere di suole e di tacchi».
«“Volevo chiederle di ballare con me la prossima mazurka. Dica di sì, non faccia il cattivo: si sa che lei era un gran ballerino”. Il Principe si sentiva tutto ringalluzzito [...] L’idea della mazurka però lo spaventava un poco: questo ballo militare, tutto battute di piedi e giravolte, non era più roba per le sue giunture [...]. “Grazie, figlia mia… ma la mazurka no; concedimi il primo valzer”». Anche nel romanzo c’è un colonnello, quel famoso Pallavicino, reduce tronfio dalla sparatoria di Aspromonte. Nel racconto «lei indossava un abito bianco con una cintura rosa». Nel romanzo Angelica ha un abito rosa («Il nero del frac di lui, il roseo della veste di lei»). Nel film invece Angelica torna in bianco, come in Tolstoj. Non è un dettaglio secondario: Visconti si annida nei dettagli. E la sua è altissima sartoria.
«Claudia Cardinale indossò l’abito bianco creato da Piero Tosi [...] L’abito nacque a partire da un’accurata ricerca sulla stoffa, la foggia, la fattura di metà Ottocento ». Soprattutto in questa parte, la più significativa, Visconti tradisce la fedeltà al testo e si prende delle libertà sorprendenti. Inverte l’episodio in cui il principe si imbatte per strada in un prete che va a portare il viatico a un agonizzante, che nel romanzo avviene durante l’andata in carrozza al palazzo del ballo. «La carrozza si fermò: si sentiva un gracile scampanellio e da uno svolto comparve un prete recante un calice col Santissimo [...] una di quelle case sbarrate racchiudeva un’agonia: era il Santo Viatico. Don Fabrizio scese, s’inginocchiò sul marciapiede, lo scampanellare dileguò nei vicoli».
Nel romanzo, dopo il ballo il principe lascia la carrozza e torna a piedi, rinnovando l’appuntamento con le stelle, e pronuncia la sua invocazione alla fedele Venere, preludio della morte cui è dedicato il capitolo successivo. Nel film, l’incontro fra il principe e il corteo funebre del viatico è spostato alla fine. Ma soprattutto Visconti introduce ex novo un tema assente nel libro, di decisiva influenza. Lo prepara con una conversazione durante la festa in cui Tancredi, l’ex garibaldino già passato ai vincitori dell’esercito regio, scandalizza l’innamorata Concetta con una cinica osservazione sui soldati che hanno disertato per Garibaldi, di cui annuncia l’esecuzione imminente. E alla fine, quando il principe cammina sotto le sue stelle e la carrozza coi due innamorati procede nella corsa, si ode una scarica: i disertori sono stati fucilati. Il colonnello Pallavicino e il suo corteggio di ufficiali avevano lasciato la festa per tempo adducendo i loro doveri in piazza d’armi: come il padre di Varen’ka.
Un intervento così invadente, e incisivo sull’impianto storico, fa corrispondere per intero lo schema del racconto di Tolstoj con quello del Gattopardo.
Là il colonnello affettuoso è l’altra faccia del bruto che sferza il disgraziato disertore. Qui la lussuosa futilità del ballo finisce nella scarica di fucileria contro i disertori. Lo sparo echeggia nella carrozza che trasporta Angelica, Tancredi e don Calogero Sedara, al quale è affidato il suggello: «È stato ripristinato l’ordine».
Le coincidenze (altre non ne ho citate) possono solo essere coincidenze. In tanto evocare Stendhal e Proust (e caso mai il Tostoj di Guerra e pace e della Morte di Ivan Ilic), mi piace immaginare che fosse entrato il Tolstoj vecchio: Dopo il ballo fu scritto nel 1903, e uscì postumo nel 1911. Ora un bel libro di Alberto Anile e Maria Giannice,
Operazione Gattopardo (prefazione di Goffredo Fofi, Le Mani), illustra la metamorfosi di un “romanzo di destra” in un “film di sinistra”, del Risorgimento di Tomasi in quello di Visconti (e Togliatti). Se, come ho insinuato, Tomasi si fosse rifatto a Tolstoj, e Visconti (che non aveva mai incontrato Tomasi) anche, anzi calcando la mano, sicché la fustigazione del tartaro disertore e la fucilazione dei soldati dell’esercito regio disertori fossero parenti, il finale sarebbe meno contingente.
Dopo il ballo finisce col narratore inorridito: «Se queste cose le fanno con tanta sicurezza e son ritenute da tutti indispensabili, vuol dire che loro sanno qualcosa che io non so, così pensavo, e mi sforzavo di scoprire cosa fosse quel qualcosa. Ma, per quanti sforzi facessi, non riuscii a saperlo nemmeno in seguito». In quel momento prende la decisione che cambierà la sua vita: non entrerà nell’esercito. «Quanto a Varen’ka… Si disinnamorò di lei».
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