giovedì 4 aprile 2013

Costantino non fu il padre dell'intolleranza religiosa


Favorì il cristianesimo ma non perseguitò i pagani

Paolo Mieli

"Corriere della Sera",  3 aprile 2013

Il 29 marzo 1913, nell'ambito del giubileo voluto da papa Pio X per celebrare i sedici secoli dall'editto di Milano, l'arcivescovo di Parma Guido Maria Conforti esaltò il «significato latissimo» di quella lontana concessione della libertà di culto ai cristiani che, disse, «segna la fine di un'epoca, il tramonto del mondo antico, del paganesimo, e l'inizio di un'era novella di splendore e di gloria pel cristianesimo». Lode dunque, ancorché implicita, all'autore di quel proclama, l'imperatore Costantino (in compagnia di Licinio, imperatore d'Oriente). Ma, a proposito di Costantino, l'arcivescovo Conforti si sentiva in dovere di puntualizzare, stavolta esplicitamente, che «la storia imparziale non può negare anche azioni punto commendevoli». Un'eco del severo giudizio di filosofi e storici del Sette e dell'Ottocento (in realtà già da molti secoli prima) sul sovrano che spalancò le porte al cristianesimo.
Una quarantina di anni fa, in Antico, Tardoantico ed Era Costantiniana (Dedalo), Santo Mazzarino — che pure considerava Costantino «un grande rivoluzionario» — diede risalto al fatto che in ambienti pietisti di Jena, già nel 1713, si parlava di quell'imperatore come di un «cristiano solo a parole, non nella vita… mosso esclusivamente da ragioni politiche». Voltaire lo raffigurò poi come un uomo «brutalmente attento alle questioni di potere», che aveva trasferito la capitale dell'impero a Bisanzio per sottrarsi al «meritato» odio dei romani. In Storia della decadenza e caduta dell'impero romano (1776), Edward Gibbon aveva fatto suo quel giudizio, descrivendolo sì come un buon principe, ma aggiungendo che negli anni si era trasformato in un «dispotico autocrate». Poco meno di un secolo dopo, in L'età di Costantino il Grande (1853), Jacob Burckhardt lo aveva rappresentato come un uomo «fondamentalmente non religioso», un «egoista con la porpora» che, a seguito di una «conversione solo esteriore», aveva praticato un «cristianesimo ipocrita» al solo scopo di «consolidare un impero in difficoltà».
All'inizio del Novecento, pur in un ambito celebrativo (il giubileo voluto da Pio X), in Germania Eduard Schwartz scrisse che Costantino aveva «una moralità non molto superiore a quella di un sultano orientale» e gli attribuì un «piano di dominazione della Chiesa». Nello stesso contesto, il patrologo cattolico di orientamento modernista, Hugo Koch, vide in lui «la vittoria di Roma, dell'impero romano, non di Nazaret né del Golgota»; e nel suo avvento «l'ora di nascita di un rapporto tra Stato e Chiesa, politica e religione, le cui conseguenze appaiono evidenti nei segni di crisi di tutte le confessioni cristiane». Ciò che induceva Koch ad auspicare «un ritorno alla Chiesa precostantiniana». In un pregevole libro che sta per essere dato alle stampe da Jaca Book, Costantino e il suo secolo. L'«editto di Milano» e le religioni, Massimo Guidetti fa osservare come traccia di questi giudizi severi sia già nelle fonti, a cominciare dallo storico Eutropio, contemporaneo dell'imperatore, che lo descrisse come «uomo pari ai prìncipi migliori nella prima parte del suo impero, ai mediocri nella seconda». Eberhard Horst, in Costantino il Grande (Bompiani), fa risalire a Giuliano l'Apostata, nipote e successore di Costantino, le prime gravi accuse contro l'imperatore dell'editto di Milano; e a Zosimo, storico greco del VI secolo, autore di una Storia nuova in sei libri, l'idea che egli si fosse addirittura macchiato di «empietà».
Dopodiché, osservava Horst, «non vi è stato sovrano d'Occidente che abbia attirato su di sé tanti rimproveri gravi e fatali». Prima di tutto per la sua presunta «donazione», cioè il conferimento alla Chiesa di potestà sull'Italia e sulle province occidentali dell'impero. Nel mondo medievale, quando la donazione di Costantino «legittimava la pretesa di potere temporale del papato», molti gli attribuirono la degenerazione della Chiesa e «lo maledirono». A partire da Dante, che lo citò nell'Inferno (canto XIX) proprio per «quella dote» che da lui avrebbe ricevuto «il primo ricco patre», cioè papa Silvestro I, il quale, secondo una leggenda, lo avrebbe battezzato avendone in cambio la suddetta «donazione». Quello della «donazione» — come ha ben raccontato Giovanni Maria Vian nell'esauriente La donazione di Costantino (Il Mulino) — fu per oltre sette secoli elemento costitutivo del diritto internazionale d'Occidente e delle pretese dei Papi. Anche se, sulla scia di Vian, Riccardo Fubini, nell'Enciclopedia costantiniana di cui parleremo tra breve, fa osservare che il ricorso a questo testo fu «saltuario» e di «ridotto impatto dottrinale» prima del XII e soprattutto del XIII secolo. Né mancarono, rileva Fubini, «le confutazioni, indissolubilmente dottrinali e storiche, dall'imperatore Ottone III al canonista Sicardo da Cremona (1180), secondo cui papa Silvestro non era stato insignito dei diritti del potere imperiale, ma aveva solo ricevuto dotazioni patrimoniali per la Chiesa». Come del resto ha ampiamente dimostrato Domenico Maffei nell'interessante La donazione di Costantino nei giuristi medievali (Giuffrè).
Fino a quando, nel Quattrocento, Nicola Cusano e Lorenzo Valla dimostrarono la falsità di quel documento attribuito a Costantino. Ma, a dispetto del trattato di Valla (1440, edito però solo nel 1517), che non lasciava adito a dubbi, settant'anni dopo l'impeccabile confutazione, su disposizione di Clemente VII, furono dipinti nella sala udienze in Vaticano grandi affreschi con la raffigurazione del battesimo impartito da Silvestro (falso) e della donazione di Costantino (falsa). E così, ha scritto Giovanni Maria Vian, proprio quando la questione sembrava risolta, nel Cinquecento si riaccese e divenne occasione di conflitto dapprima dei protestanti e poi degli anticlericali del Risorgimento contro la Chiesa di Roma. «La controversia si trasformò in un dibattito acceso sul problema del potere temporale del Papa e sulla sua presenza in Italia, e quindi durante l'Ottocento nella questione romana, nodo cruciale nella costruzione dello Stato unitario; che fu chiusa, ma non del tutto risolta, dai Patti lateranensi e, nell'Italia repubblicana, con il ripristino, dopo sessant'anni, di un minimo potere temporale», ha ricordato Vian.
Altra accusa a Costantino fu quella di aver trasferito il governo a Bisanzio, abbandonando Roma a se stessa, favorendone il declino, incoraggiando le invasioni dei barbari e indebolendo così l'intero Occidente. Anche Martin Lutero mosse questo rimprovero allorché, nella sua tesi Contro il papato di Roma, voluto dal demonio (1545), così puntò l'indice accusatorio: «Quando Costantino il Grande trasportò la sede imperiale da Roma a Costantinopoli… Roma sminuì di giorno in giorno, finché vennero i Goti e, sotto l'imperatore Onorio, Roma fu conquistata con tutti i territori italici». Ma l'imputazione più grande restava quella di aver posto le basi per il potere temporale della Chiesa.
In realtà — lo ha discolpato Horst — solo più tardi, nel 380, con il suggello legale dell'imperatore Teodosio, il cristianesimo assunse il ruolo di religione di Stato. E, con l'introduzione della religione di Stato, «Teodosio avviò un periodo di intolleranza che era in deciso contrasto con i princìpi della politica di conciliazione di Costantino». Ma era stato uno dei padri della Chiesa, Gerolamo, a indicare «l'avvio» di quel processo come riconducibile a Costantino. «Quando è venuto il regno di imperatori cristiani», sono parole di Gerolamo, «la Chiesa è divenuta più grande per potere e ricchezza, ma più piccola per virtù». E sarebbe stato poi Johann Gottfried Herder a mettere sul conto di Costantino la creazione di un «mostro a due teste» che «in era medievale si atteggiò a Chiesa cristiana». Per poi aggiungere: «E Bisanzio insegna dove porta un cristianesimo di Stato».
Quasi del tutto inattendibile, a detta degli storici, fu poi l'assai celebrata Vita di Costantino di Eusebio di Cesarea. La «rivoluzione costantiniana», ha scritto Arnaldo Marcone in Costantino il Grande (Laterza), «considerata autonomamente, almeno in parte, rispetto alla grave questione della fine dell'impero romano, gode sicuramente oggi di una considerazione più equilibrata». Sono proprio i limiti, che sembrano ormai «indiscutibili», dell'azione politica di Costantino che giovano «a una migliore valutazione della sua figura». A ben guardare «la più grave falsificazione» della Vita di Costantino di Eusebio di Cesarea è, secondo Marcone, «di natura ideologica». In che senso? Il destino dell'impero, sostiene Marcone, «non era nella monarchia»; il grande disegno di Costantino, con lo sguardo rivolto «verso l'alto», verso il suo modello celeste, di creare un regno terreno copia di quello divino, afferma Marcone, «ci appare tragicamente irrealizzabile».
Sono temi su cui si soffermerà in modo definitivo l'Enciclopedia costantiniana, un'opera monumentale voluta dal cardinale Angelo Scola e curata da Alberto Melloni (con voci scritte da 53 studiosi), che la Treccani manderà in libreria tra breve. «Qualunque riflessione su Costantino, a qualunque livello si collochi — parli essa la lingua della storia o dell'arte, del falso o della filologia, dell'agiografia o dell'erudizione, d'una apologetica cattolica o di una critica protestante, corra sul filo della parenesi o della demitizzazione — è portatrice di implicazioni generali, svela e plasma idee profonde sulla cultura e sulla sua esplicazione storiografica», scrive Melloni nell'introduzione; «il segno di Costantino è un ordigno storico irreparabilmente esploso, le cui schegge si sono conficcate ovunque in tutto quello che è la storia delle Chiese cristiane, senza eccezioni culturali o confessionali». Quanto alla «donazione», ha scritto Vian, «da un millennio è posta in dubbio, detestata, discussa e ora di fatto scomparsa». Anche se «resta paradossalmente un fatto: se oggi il Papa di Roma ha un'autorità mondiale riconosciuta non soltanto sul piano politico ma anche su quello morale», ha osservato il direttore dell'«Osservatore Romano», «dal punto di vista storico in parte lo deve proprio al falso documento attribuito al primo grande sovrano cristiano».
Ma torniamo al libro che sarà pubblicato da Jaca Book. Guidetti sottolinea come Massenzio, l'uomo battuto nella battaglia di ponte Milvio (312), non era quel che la storia ci ha tramandato e cioè un nemico dei cristiani, simile a Diocleziano, il grande vessatore del biennio 303-305. Anzi, Massenzio a Roma «si comportò in modo favorevole alla comunità cristiana, ponendo fine alle persecuzioni e disponendo la restituzione dei beni confiscati». Le raffigurazioni di segno diverso «sono inficiate dalla pratica di diffamare l'avversario», messa in atto da Costantino e dai suoi aedi. Non è vero nemmeno che Costantino fosse cristiano fin da giovane. Il fatto che, come sostiene Lattanzio, Costantino, fin da quando morì suo padre Costanzo Cloro e lui fu proclamato imperatore a York (306), aveva deciso di concedere ai cristiani la libertà di culto, non risponde a realtà. Anche questa notizia è, a detta di Guidetti, un prodotto «della successiva propaganda costantiniana». Sarebbe più giusto, scrive, «attribuire all'imperatore un generico atteggiamento favorevole nei confronti dei cristiani». E perfino per quel che riguarda l'editto di Milano (313), Guidetti ripropone le tesi dello storico tedesco Otto Seeck, che già a fine Ottocento sostenne non essersi trattato di una vera e propria autorizzazione al culto, bensì di provvedimenti di revoca di un precedente editto di persecuzione. Stesso discorso vale per l'editto di tolleranza di Galerio.
Può sembrare una sfumatura, ma non lo è. Timothy D. Barnes ha recentemente dimostrato (con un'ampia messe di prove) che si trattò di un provvedimento indirizzato a un'area specifica dell'impero, quella orientale dove aveva infierito Massimino Daia, mentre a Occidente le vessazioni a danno dei cristiani erano già cessate da tempo. Di più. Undici anni dopo quello di Milano, nel 324, a seguito della vittoria su Licinio, Costantino indirizza un editto alle province d'Oriente, in cui, scrive Guidetti, «traccia, questa volta in piena autonomia e senza alcuna necessità di compromessi, le linee portanti della propria politica religiosa». Dopo aver ricordato le persecuzioni degli anni precedenti, l'imperatore dichiara la sua scelta per il Dio dei cristiani e la sua Chiesa, «all'interno della pace imperiale», ed esprime il principio che «anche quanti si trovano nell'errore, allo stesso modo di coloro che hanno fede, godano con gioia dei benefici della pace e della serenità». Da notare che non si fa qui nessuna menzione dell'editto di Milano. Tra il 313 e il 324, mette in risalto Guidetti, si invertono le parti: «Inserimento del cristianesimo tra le religioni consentite nel primo (313); conferma al paganesimo e a tutte le religioni della legittimità della loro presenza nell'impero dove l'autorità dà la preferenza al Dio cristiano, nel secondo (324)».
Tuttavia «la conversione di un imperatore e il suo intervento attivo introdussero nella vita delle comunità cristiane un fattore dinamico di fronte al quale esse si trovarono impreparate, poco in grado di interloquire». Per oltre una generazione, «la politica unificatrice imperiale poté agire su questo nucleo originale e originario con grande potenza formativa, determinandone la forma storica e fissandola in alcuni casi per molto tempo a venire». Costantino non volle né poté «arrestarsi alla pace tra l'impero e i cristiani, lasciando che i suoi frutti maturassero nel tempo». Nella tradizione romana la religione «era parte essenziale della vita pubblica anzitutto in senso istituzionale; i sacerdoti del culto pagano godevano di privilegi e immunità, gli edifici di culto erano finanziati dallo Stato in diversi modi, anche con i bottini di guerra; le celebrazioni delle feste religiose erano organizzate dai funzionari e finanziate dalle curie urbane e dal Senato». La gestione del sacro era uno dei principali doveri pubblici per garantire continuità allo Stato; di conseguenza anche le comunità cristiane, in quanto parte dei culti riconosciuti, erano sottomesse all'imperatore che esercitava l'autorità di pontifex maximus».
Vari privilegi furono concessi ai chierici. Nel 321 si riconobbe al «santissimo e venerabile Concilio della Chiesa» il diritto di ricevere beni in eredità senza i vincoli di forma normalmente richiesti per atti del genere. Alle chiese erano stati fatti confluire i beni già espropriati e da restituire in base ai provvedimenti del 313, nel caso in cui il legittimo proprietario fosse defunto senza eredi. Anche donazioni ed elargizioni estemporanee contribuirono a dotare in breve tempo le comunità e i loro vescovi di patrimoni di notevole entità. Ma, fa osservare Guidetti, il favore dell'imperatore non si estese agli eretici né agli scismatici, ai quali non vennero riconosciuti i privilegi concessi a quanti osservavano la fede cattolica.
Gli eretici sono invitati a «riconoscere la menzogna della loro vanità», il «pericolo di morte eterna che costituiscono per quanti li seguono» e l'«enormità dei loro delitti». Fanno parte di questi eretici i seguaci di Ario, dei quali si dirà, a ridosso dell'editto di Tessalonica (380), che «non sono da ritenersi cristiani». Fu però in età costantiniana che si produsse una prima retorica antisemita. Anche se, scrive Guidetti, questa retorica non fu un'invenzione costantiniana, dal momento che se ne trovano i presupposti già nei secoli precedenti. Con quella che Guidetti definisce una «gentilezza eccessiva», questo uso di insultare gli ebrei viene chiamato dagli storici «radicalismo verbale»; sarebbe più corretto, scrive l'autore, «parlare di una retorica dell'ingiuria preludio ad azioni maggiormente lesive, che troviamo esercitata tanto in Costantino che nei discorsi e negli scritti dei cristiani dell'epoca». Nel merito «i provvedimenti di Costantino sono articolati ma si presentano ostili quando si tratta di tutelare le comunità cristiane, quindi proteggere chi si converte al cristianesimo e ostacolare quanti passano al giudaismo». Se un ebreo fa circoncidere un servo cristiano o di qualsiasi altra religione, questo diviene libero; un ebreo che voglia farsi cristiano non deve essere insultato né impedito in alcun modo. La conversione del servo segnala un modo di proselitismo che avveniva all'interno della casa, con il sospetto di una certa coercizione; le libere conversioni al giudaismo furono punite con il rogo.
Trascorse poi qualche decennio e fu dopo Teodosio e dopo l'editto di Tessalonica (di cui parleremo tra breve) che tutto cambiò. I primi a farne le spese furono nuovamente gli ebrei: ad Antiochia, una sinagoga dedicata ai martiri Maccabei passò alla Chiesa locale; sempre alla fine del IV secolo, a Stobi, in Macedonia, il tempio ebraico venne distrutto e sostituito da una basilica cristiana; a Roma, ai tempi del governo dell'usurpatore Massimo, una sinagoga venne devastata da un incendio doloso; a Callinico, sull'Eufrate, nel 388 la popolazione cristiana della città, istigata dal vescovo, mise a ferro e fuoco la sinagoga. Teodosio avrebbe voluto far osservare la legge e costringere la comunità cristiana a «ricostruire l'edificio a proprie spese»; ma cedette all'opposizione del vescovo di Milano, il quale gli ricordò con grande autorevolezza che «non conveniva all'imperatore difendere l'errore ebraico». Pochi anni dopo, tuttavia, precisa Guidetti, «egli tornò all'antico e ricordò al comandante militare per l'Oriente che non esistevano leggi che proibissero alla comunità ebraica di esistere e che ogni atto illegale contro le sinagoghe doveva essere represso, anche se compiuto sotto il manto della religione cristiana». E «nell'ostinata resistenza degli ebrei, che contraddisse tutte le aspettative», osserva l'autore, «ci fu qualcosa di stupefacente per i cristiani».
Sostanzialmente, invece, i pagani si lasciarono travolgere. Nel 392, con un unico decreto venne messo al bando l'intero loro mondo: il culto privato dei lari, del genio domestico e dei penati, le pratiche dell'aruspicina e della magia, anche se non attentavano alla salute del principe. Si puniva persino la costruzione di idoli e il culto reso a essi come il sacrificio in templi e tempietti pubblici, anche in campi e dimore di non pagani. Con i divieti di Teodosio ebbe fine la struttura che sosteneva i culti. La proibizione dei sacrifici a lungo andare fu il fatto decisivo, unita alla sottrazione delle risorse economiche ai templi che ancora ne avessero e allo svuotamento dei riti conseguente alla perdita del loro carattere ufficiale. Frammenti dei culti e delle divinità pagane «iniziarono il loro viaggio in un mondo ormai ostile, in una continuità carsica che lasciò sparsi indizi, come nel rimprovero ai cristiani per la loro partecipazione a banchetti con pagani di fronte a una statua, un altare o un tempio, che troviamo formulato a più riprese in Agostino e oltre». I culti antichi «si avviavano verso la marginalizzazione, l'esilio in province lontane dai centri dell'impero oppure si mimetizzarono».
Nei decenni che portano alla conclusione del quarto secolo, il progetto costantiniano è tramontato; l'azione dell'imperatore è stata sottoposta a critiche persino da parte cristiana, ma parallelamente corrono anche giudizi positivi, per la pacificazione portata alla Chiesa e la conseguente diffusione del cristianesimo. Per la risonanza delle azioni da lui compiute e per la propaganda imperiale che le sostenne, la figura di Costantino divenne sempre più nota in Oriente, dove l'imperatore trascorse l'ultima parte della sua vita.
Accanto alle «conoscenze su di lui che possiamo chiamare "storiche", perché derivate per varie vie da testimoni diretti dell'accaduto e da documenti da essi raccolti», scrive Guidetti, «si moltiplicavano frammenti di racconto che attingevano piuttosto al folclorico, all'immaginario devozionale, alla tradizione locale, esprimendo più le convinzioni della comunità in cui erano elaborati che non un contributo alla conoscenza storica delle vicende». Frammenti narrativi portati nella nostra penisola da pellegrini, che sarebbero stati rielaborati dal vescovo Ambrogio di Milano e dallo storico Rufino.
Oggi di Costantino la Chiesa discute senza remore o problemi. «Era un politico e ragionava solamente da politico; ritenne conveniente per l'impero avere i cristiani dalla sua parte piuttosto che contro, dal momento che l'impero aveva a quei tempi bisogno della concordia interna, a impedire fughe centrifughe su base nazionale», ha scritto Alberto Torresani, docente della Pontificia Accademia di Santa Croce, nella premessa a 313. L'editto di Milano (edizioni San Paolo) il volume curato dal Centro culturale cattolico San Benedetto in occasione della ricorrenza. Ma perché si temevano quelle fughe centrifughe? L'eresia di Donato a Cartagine e quella di Ario ad Alessandria, ricostruisce Torresani, furono individuate come tentativi di spaccare l'unica Chiesa in Chiese nazionali, come quella punica a Cartagine, quella copta in Egitto o quella aramaica in Siria.
Problemi nacquero quando Costantino negli ultimi anni di vita (dopo aver presieduto nel 325 il Concilio di Nicea, nel quale fu condannato l'arianesimo) fece riabilitare Ario e, poco prima di morire, si fece battezzare da un vescovo ariano. Ariano fu poi suo figlio Costanzo II. In seguito venne Giuliano che, sottolinea Guidetti, «volle smantellare la costruzione costantiniana; con lui le chiese cristiane perdettero il privilegio economico e sociale acquisito, il loro formidabile patrimonio immobiliare venne depauperato e i chierici furono privati delle loro immunità». La vicenda di Giuliano, malgrado la breve durata del suo regno, scrive Guidetti, «lasciò tra i cristiani una traccia indelebile», non a causa di alcune conversioni al paganesimo, quanto perché mostrava le potenzialità di un imperatore non cristiano e «rivelava la forza della critica pagana».
Fu solo nel 380 con l'editto di Tessalonica («Vogliamo che tutti i popoli retti dal governo della nostra clemenza si attengano a quella religione che proclama di essere stata trasmessa dal divino apostolo Pietro ai romani… Ordiniamo che si fregino del nome di cristiani cattolici quanti seguono questa legge; riteniamo che gli altri pazzi e insensati debbano sopportare l'infamia del dogma eretico, che i loro conciliaboli non ricevano il nome di chiese e che debbano essere condannati anzitutto dalla vendetta divina, poi dalla nostra autorità che ci viene dal giudice celeste», scrivevano Graziano, Valentiniano II e Teodosio), fu con questo editto, dicevamo, che la storia prese una piega diversa. 
Ma allora cosa resta dell'«età costantiniana»? Il concetto di «età costantiniana», scrive Guidetti, «non ha forte validità storiografica, è troppo esteso e generalizzante per poter essere messo alla prova con la finezza di dettaglio che il lavoro storico richiede». Si tratta piuttosto di una «formula politico-culturale» e di «teologia della storia» che esprime «il tratto comune a una successione di epoche della vicenda europea, caratterizzate dall'alleanza tra trono ed altare, tra potere statale e potere ecclesiastico e dalla tendenziale identificazione tra Stato e Chiesa». «In parte giustamente e in parte arbitrariamente l'aggettivo riconduceva tutto a Costantino». Ma Costantino con tutto questo ebbe a che fare in modo assai relativo. E meno, assai meno dei suoi successori.

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