venerdì 10 ottobre 2014

Aggiungi un posto a tavola: c’è Dante al pranzo reale


L’invito di Roberto D’Angiò, la reazione in apparenza folle del poeta

Una storia vera e imprevedibile, che svela il legame tra cibo e potere

Massimo Montanari

"La Repubblica",  10 ottobre 2014

MOLTE storie si raccontavano su Dante Alighieri, il gran poeta fiorentino — celebre per l’indole focosa e lo spirito sarcastico non meno che per la sua arte sopraffina — costretto a un lungo peregrinare tra le corti d’Italia dopo essere stato esiliato dalla sua città. Tra i molti aneddoti fioriti attorno alla sua persona, particolare fortuna ebbe quello di un invito a pranzo fattogli da Roberto d’Angiò, figlio di Carlo II re di Napoli, divenuto egli stesso re nel 1309.
Il lucchese Giovanni Sercambi, agli inizi del XV secolo, ne fa argomento di una sua novella. Ci racconta che, «essendo già la nomea sparta del senno del ditto Dante», il nuovo re desiderò subito conoscerlo e ospitarlo presso di sé «per vedere e sentire del suo senno e vertù». Scrisse quindi una lettera a Castruccio Castracani, signore di Lucca, presso il quale Dante allora si trovava assieme ad altri esuli fiorentini; un’altra lettera inviò allo stesso Dante, che decise di accogliere l’invito, «si mosse di Lucca e caminò tanto che giunse in Napoli».
L’itinerario di viaggio procede in modo non lineare perché, dati i rapporti burrascosi tra Dante e la parte guelfa, preferisce evitare «terra dove la Chiesa potesse»: pertanto non scende dritto a sud, ma attraversa l’Appennino e raggiunge le Marche, poi lo riattraversa in direzione Napoli. Arriva in città giusto all’ora di pranzo e si affretta a raggiungere il Palazzo reale. Subito lo introducono nella sala del banchetto, dove, data «l’acqua alle mani», gli ospiti stanno già accomodandosi a tavola. Dante è vestito in modo dozzinale, «come soleano li poeti fare» (evidentemente, l’immagine dell’intellettuale bohémien non è un’invenzione ottocentesca). Forse non aveva avuto il tempo di cambiarsi d’abito e sistemarsi — anche se l’osservazione di Sercambi sembra piuttosto suggerire un’abitudine, un modo di abbigliarsi consueto.
Il sovrano sta prendendo posto «alla sua mensa», così come i baroni del regno. Chiede di Dante, gli dicono che finalmente è arrivato. Nella fretta dell’ultimo momento, il personale di sala lo mette a sedere «in coda di taula», in fondo a una delle ultime tavole, in un posto di poca visibilità e di scarso prestigio. Un posto dove anche il cibo poteva essere più modesto, poiché non su tutte le tavole si servivano i medesimi piatti: anche la qualità del cibo rappresentava visivamente le differenze di rango. Lo dice bene un poemetto in versi di Cosimo Anisio, non eccelso poeta del XVI secolo: «A quella mensa arrivarono piccoli pesci e altre quisquilie, mentre alla prima mensa se ne servivano di magnifici».
Il poeta — notoriamente un personaggio irascibile — la prende male, pensa che re Roberto abbia mancato ai suoi doveri organizzando un’ospitalità così distratta. Tuttavia ha fame e decide di rimanere: «Avendo Dante voluntà di mangiare, mangiò». Ma appena finito il pranzo si alza e se ne va, ripartendo subito in direzione di Ancona per poi ritornare in Toscana. Roberto, intanto, ha indugiato a tavola, chiacchierando con i commensali. All’improvviso gli viene in mente di avere un ospite importante, e chiede dove sia Dante. Gli rispondono che è già partito in direzione di Ancona. Il re si rammarica di non avergli fatto onore e pensa — giustamente — che Dante se ne sia andato in collera. Subito ordina a un mes- saggero di rincorrerlo prima che arrivi ad Ancona, per consegnargli una lettera di scuse. Dante, raggiunto, legge la lettera e torna sui suoi passi.
Eccolo di nuovo a Napoli. Questa volta si veste «d’una bellissima robba» e si presenta dinnanzi al re con gran cerimonia. Giunge l’ora di andare a pranzo e il re lo fa mettere «in capo della prima mensa, che al lato alla sua era». Una collocazione di primissimo piano, nella geografia simbolica del banchetto. La tavola a fianco di quella reale è la più vicina al centro del potere, chi la presiede occupa un posto d’onore che si concede a pochi. Dante, attorniato da alti personaggi, se la gode nel bel mezzo della tavola.
Ora comincia il teatro. Arrivano le vivande e i vini, e «Dante, prendendo la carne, et al petto e su per li panni se la fregava; così il vino si fregava sopra i panni ». I vicini di tavola cominciano a rumoreggiare: va bene che gli intellettuali sono strani, ma fino a questo punto! Strofinarsi la carne addosso, versarsi «il vino e la broda sopra i panni» è comportamento davvero singolare. Un umanista cinquecentesco, il lughese Bartolomeo Ricci, nel raccontare questa storia arricchisce l’episodio di particolari succosi: «Invece di portare i cibi alla bocca, Dante li gettava sulle vesti, versandoli ora da una parte, ora dall’altra; la carne bollita se la mise sul braccio; sulle spalle si appese degli uccelli interi».
Torniamo a Sercambi. «Costui dé esser un poltrone», commentano gli illustri vicini. Dan- te li sente, ma tace. Il suo piano sta funzionando. È lo stesso sovrano a rivolgersi a lui: «Dante, che è quello che io v’ho veduto fare? Tenendovi tanto savio, come avete usato tanta bruttura? ». Dante non aspettava altro. «Santa corona», risponde, «io cognosco che questo grande onore ch’è ora fatto, avete fatto a’ panni; e pertanto io ho voluto che i panni godano le vivande apparecchiate». E per chi ancora non avesse capito, spiega: io sono lo stesso dell’altro giorno, con tutto il mio senno, qualunque esso sia. Ma l’altro giorno mi avete messo in fondo alla tavola perché ero malvestito; oggi, ben vestito, mi avete messo a capotavola.
Il re Roberto non si offende per il rimprovero, poiché lo ritiene fatto con spirito e «onestamente », e per di più corrispondente al vero. Comanda di portare una veste pulita e prega Dante di rivestirsi, dopo di che il poeta «mangiò avendo allegrezza ché avea dimostrato a’ re la sua follia». Terminato il pranzo e alzatisi da tavola, il re prese da parte Dante e si intrattenne amabilmente con lui, «praticando della sua scienza» e trovandolo persona ancora più brillante e sapiente di quanto non avesse sentito dire. Lo pregò di fermarsi a corte per qualche giorno, per il piacere di conversare con lui.

Questo testo è tratto da I racconti della tavola di Massimo Montanari (Laterza, pagg. 224)

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