Con Vincent nella sua terra
La rassegna «Van Gogh. L'uomo e la terra», aperta a Palazzo Reale, esplora il tema (molto vicino a quello di Expo) dell'agricoltura e dei suoi umili protagonisti
Ada Masoero
"Il Sole 24 Ore - Domenica", 26 ottobre 2014
«Zappatori, seminatori, aratori, uomini e donne, che ora devo disegnare continuamente. Devo osservare e disegnare tutto ciò che fa parte della vita di un contadino, come molti altri hanno fatto e stanno facendo. Non sono più così inetto come un tempo davanti alla natura». Quando van Gogh scrive queste parole al fratello Theo è il 1881. Con un rosario di fallimenti alle spalle – studente scioperato prima, ragazzo di bottega e aspirante mercante d'arte poi, infine predicatore mancato – ha ormai preso una decisione: sarà un artista.
Non che Vincent, che ha 27 anni (molti, per i tempi), sia uno sprovveduto: è da sempre un lettore vorace e di ottime letture e, come denuncia anche quello scritto, conosce bene l'arte contemporanea, oltre a quella antica, praticata assiduamente nei musei di Amsterdam e Anversa e dell'Aja e Londra, dove ha lavorato nelle filiali di Goupil. E proprio per aver lavorato in quell'importante galleria (solo perché lo zio Cent è socio), conosce il mercato e sa quanto i «quadri con gli zoccoli», come li chiama lui, possano essere apprezzati dai borghesi nei loro appartamenti cittadini.
Ma a spingerlo in quella direzione sono soprattutto la venerazione per Jean-François Millet, il cantore della vita rurale, che resterà il più duraturo dei suoi idoli, e l'amore costante per la natura – in cui era cresciuto –, da lui sempre intrecciato all'evangelica attenzione per gli umili: specie per i contadini che, a contatto come sono con la natura, incarnano ai suoi occhi la più autentica etica del lavoro. Commentando i Mangiatori di patate, del 1885, scriverà infatti di aver voluto trasmettere in quel dipinto, tanto ambizioso quanto allora poco apprezzato, l'idea che quei contadini abbrutiti dalla fatica avessero «guadagnato onestamente il loro cibo». Perciò aveva dipinto e ridipinto i loro volti in cerca di un colore «simile a quello di una patata polverosa, non pelata. Ho ripensato a ciò che è stato detto così giustamente di Millet, i suoi contadini che sembrano dipinti con la terra che seminano».
La mostra «Van Gogh. L'uomo e la terra» esplora questo tema, così vicino a quello di Expo. E lungi dal volersi presentare come una grande antologica di van Gogh, si propone invece come un affondo sulla spiritualità dell'artista, davvero "impastata" della terra dei campi, ma con la sua cinquantina di opere finisce per diventare anche una ricognizione, concisa ma efficace, del suo lavoro di disegnatore e di pittore nei dieci anni in cui fu artista.
Perché se la terra olandese e i suoi miseri lavoratori sono il soggetto esclusivo del cupo periodo "nordico", tra Olanda e Belgio, l'amore per la campagna non viene meno neppure a Parigi, di cui non ritrae l'animazione dei boulevard o il pubblico elegante dell'Opéra ma gli orti e le stradine sterrate e i mulini, così simili a quelli olandesi, della collina di Montmartre, dove vive con Theo dal 1886 al 1888.
Ovvio che l'amore totalizzante per la natura e per la terra – mai selvatica, sempre trasformata dalla fatica dell'uomo – torni con anche maggiore intensità in Provenza, nel corso di quel viaggio dal quale tanto si attendeva ma che si rivelerà l'ennesimo "naufragio", e che perduri poi ad Auvers-sur-Oise, borgo agricolo del Nord della Francia che gli rammenta la terra d'origine e dove morirà suicida nel luglio del 1890.
Dopo l'autoritratto inquietante e "inquisitorio" del Kröller-Müller Museum di Otterlo (da cui viene la gran parte delle opere, integrate da alcuni prestiti internazionali), la mostra si apre con una sequenza di disegni ancora acerbi del 1881, l'anno della lettera citata: sono contadini dai grossi zoccoli, i pantaloni sformati, i berretti sudici, da lui nobilitati attraverso i gesti antichi del seminare, dello zappare, dello spigolare. Poi si affacciano i disegni già incredibilmente "espressivi" (questo cercava nel suo lavoro) del 1883 e 1885, con i corpi tracciati con gli stessi segni secchi e legnosi con cui delinea gli alberi spogli, qui accostati ai dipinti a olio che, sulla parete di fronte – curva e ricoperta di iuta come l'intero percorso, nel bell'allestimento di Kengo Kuma – sono abitati dalle stesse figure corrose dalla fatica.
La lunga, laboriosa avventura dei Mangiatori di patate è riassunta da alcune Teste a olio (strepitosa la donna di profilo, "sbagliata" ma incredibilmente potente. Lui del resto scriveva di aver cercato «non una testa matematicamente corretta ma l'espressione complessiva. La vita insomma»).
Poi tocca ai ritratti, con quello, folgorante, del postino Roulin, la lunga barba ricciuta, fiero e nobile come un profeta. E di seguito le splendide nature morte di ortaggi e frutti, tutti poveri: le mele tristi, quasi incolori, e le piccole zucche del dipinto del 1885, quando ancora è in Olanda; le patate (un vero tour de force cromatico, di vibrante bellezza) del 1888, quando a Parigi ha ormai scoperto il colore degli impressionisti e le stampe giapponesi, e poi i limoni in un canestro un po' sciupato e le cipolle in un piatto di terraglia, tutti dipinti con il puntinismo pausato, denso e materico che è solo suo. Sono i paesaggi a chiudere il percorso: Arles, Saint-Rémy, Saintes-Maries-de-la-Mer, Auvers... Tutti magnifici ma uno più di tutti: è il Paesaggio con covoni e luna del luglio 1889, in cui nessun colore è verosimile ma nel quale tutto, dalle pennellate convulse alla cromia alterata, esprime lo stato d'animo perturbato del pittore, ormai alla fine della sua avventura, pronto a lasciare il Midi per l'ultima tappa, a Auvers-sur-Oise.
Parole giuste per dipingere
Le missive inviate dal pittore al fratello Theo e agli artisti a lui contemporanei permettono di conoscere la vita,
il pensiero e le fasi di produzione artistica del maestro
Marco Carminati
Vedere esposte alla mostra di Milano una piccola selezione delle 900 lettere di Vincent van Gogh è un piccolo colpo al cuore. Provoca emozioni non meno intense di quelle che si provano di solito davanti ai suoi disegni e ai suoi quadri. È facile capire perché. Nessun artista che si è affacciato sino a oggi sul proscenio della storia ci ha lasciato una testimonianza epistolare così vasta, intensa e appassionata. Vincent era – tra l'altro – uno scrittore di grande talento e le centinaia di lettere inviate al fratello Theo e ad altri amici artisti come Gauguin, Seurat, Signac o Bernard, vergate con grafia chiara e regolare, rappresentano un sorprendente racconto di vita e una chiave eccezionale per interpretare le sue opere. Queste lettere ci permetterono di ricostruire in dettaglio i passi dell'esistenza di Vincent e ci permettono anche di smontare molti luoghi comuni venutisi a creare attorno al suo personaggio. Van Gogh aveva ricevuto un'ottima educazione e nelle lettere è in grado di esprimersi in diverse lingue: olandese, francese e inglese. In alcune missive, addirittura mescola tutte queste lingue. Questo preziosissimo materiale epistolare ci permette, altresì, di conoscere nei minimi particolari i suoi pensieri sull'arte, propria e altrui. Inoltre, parlando dei suoi quadri, van Gogh affianca spesso alle descrizioni verbali dei dipinti piccoli e accurati disegni, dai quali è possibile desumere come siano nate e si siano sviluppate le idee figurative di molti dei suoi capolavori più celebri. Infine, ci possiamo rendere conto delle sue non comuni capacità di narratore, della finezza dei suoi giudizi, del gusto per gli aforismi. Di contro, attraverso questi scritti, van Gogh ci permette di entrare anche nel suo intimo, ci fa partecipi con grande lucidità della sua condizione esistenziale, dei suoi disagi e della malattia mentale che lo porterà alla morte per suicidio.
Di recente i lettori italiani hanno potuto disporre di ben due antologie di lettere di van Gogh, una edita nei Millenni Einaudi a cura di Cynthia Salzman (pagg. 764) e una nella Biblioteca Donzelli a cura di Leo Jansen. Hans Luijten e Nienke Bakker (pagg. 1.070, € 55,00). Si tratta di strumenti di conoscenza davvero preziosi per entrare nel mondo di van Gogh.
«Molti immaginano che le parole siano niente. Invece non è così. Dire bene una cosa è altrettanto interessante e altrettanto difficile che dipingere una cosa». Questo scriveva Vincent a Emile Bernard il 19 aprile del 1888. Oltre a essere un prolifico scrittore van Gogh era anche un grande lettore. Aveva familiarità con la Bibbia, con Shakespeare e con i romanzieri del suo tempo. Amava Balzac e Zola, e così ebbe a scrivere: «Comincio a sentirmi sempre più attratto da Daumier. C'è in lui qualcosa di vivo e di meditato... In Balzac o in Zola ci sono brani – per esempio nel Pére Goriot – in cui nelle parole si trova un simile livello di passione incandescente». Leggendo le sue lettere, si avverte che egli ebbe accesso agli scritti di Théophile Thoré, Charles Blanc, Baudelaire e alla vasta produzione di Gautier. Inoltre, oltre ai romanzi amava anche i celebri Salons e la letteratura di viaggio.
Nelle lettere Vincent non può fare a meno di comunicare – soprattutto al fratello Theo – le sue infatuazione per gli artisti. Nel gennaio 1874 informa Theo: «Ecco l'elenco di nomi di pittori che amo particolarmente. Scheffer, Delaroche, Hébert, Hamon. Leys, Tissot, Lagye, Boughton, Millais, Thijs Maris, Degroux, De Braekeleer Jr. Millet, Jules Breton, Feyen-Perrin, Eugène Feyen, Brion, Jundt, George Saal. Israëls, Anker, Knaus, Vautier, Jourdan, Jalabert, Antigna, Compte-Calix, Rochussen, Meissonier, Zamacois, Madrazo, Ziem, Boudin, Gérôme, Fromentin, De Tournemine, Pasini. Decamps, Bonington, Diaz, T. Rousseau, Troyon, Dupré, Paul Huet, Corot, Schreyer, Jacque, Otto Weber, Daubigny, Wahlberg, Bernier, Emile Breton, Chenu, César de Cock, Mlle Collart. Bodmer, Koekkoek, Schelfhout, Weissenbruch, e last but not least Maris e Mauve».
Si tratta di una "galleria" molto personale che egli formò nella sua mente attraverso le visite ai musei, gli acquisti, le letture di libri e riviste illustrate, il suo lavoro da Goupil. Notiamo che nella lista manca Manet. Ma di lui inizierà a interessarsi durante il primo soggiorno parigino tra il 1875 e il 1876.
Ciascun artista di questo "museo privato" fluttuerà nella valutazione di Vincent, sarà cioè esposto a cali di entusiasmo o, addirittura, al declassamento. In questo modo van Gogh si disamorerà di Henri Leys, di James Tissot e dei preraffaelliti. Ma chi resisterà a questa erosione sarà soprattutto Millet. Millet sarà uno dei pochissimi artisti a non decadere mai da quell'autorità che van Gogh gli aveva conferito nel 1874: «Sì, questo quadro di Millet, L'Angelus della sera, è pieno di ricchezza e di poesia». L'ammirazione per Millet – prima ancora di essere rafforzata dalla lettura dell'agiografia di Alfred Sensier – è intrisa di un religioso rispetto verso l'uomo, presunto modello di una probità morale, e verso l'opera, considerata un vero e proprio vangelo. Visitando la prima retrospettiva di Millet all'Hôtel Drouot di Parigi (1875) van Gogh – in preda all'emozione – così dichiarò: «Ho sentito qualcosa come: "toglietevi le scarpe, state calpestando una terra santa"».
Van Gogh vide in Millet un pittore «autentico», proprio quando le avanguardie cominciavano a dimenticarlo, ma anche e soprattutto un pittore «dell'autentico», una sorta di santo moderno che esaltava la propria fede in mezzo ai villici di Barbizon. Poco importa che l'autore dell'Angelus fosse un totale agnostico, e non tenesse alcuna considerazione dei contadini di Barbizon.
Nelle lettere, e in particolare in quelle indirizzate all'amatissimo fratello Theo, Vincent van Gogh riesce a raggiungere vette di autentico lirismo. Leggiamo cosa scrive nel giugno del 1880: «Uno ha un grande fuoco nell'anima ma nessuno viene a scaldarsi, i passanti non scorgono che un po' di fumo al comignolo e se ne vanno per la loro strada. E allora che fare, ravvivare questo fuoco interiore, avere del sale in sé, attendere pazientemente – ma con quanta impazienza – attendere il momento in cui, mi dico qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà».
In una lettera, il nostro tormentato maestro si trasforma quasi in un profeta: «Caro Theo, non posso farci nulla se i miei quadri non si vendono. Ma verrà un giorno in cui varranno più del colore che io ci metto, e della mia stessa vita».
«Caro Theo, sto studiando Millet»
A Theo van Gogh: Londra,
inizio di gennaio 1874
«Sono felice che ti piaccia Millet, perché "ci siamo proprio". Si, quel quadro di Millet L'angelus della sera "ci siamo proprio". È ricco, è poesia. Come vorrei parlare con te ancora di arte, ma ora possiamo solo scriverne spesso l'uno all'altro: "trova cose belle" più che puoi, la maggior parte della gente trova "troppo poca bellezza". Continua sempre a camminare e ad amare la natura, perché è questo il vero modo per imparare ad amare l'arte sempre meglio. I pittori comprendono la natura e la amano e "ci insegnano a vedere". E poi ci sono pittori che non fanno altro che cose buone, che non possono mai sbagliare, così come ci sono persone normali che non combinano mai nulla di buono»...
* * *
A Theo van Gogh: Amsterdam,
lunedì 18 e martedì 19 febbraio 1878
«Ieri sera mi sono visto un'intera annata della rivista L'Art. Mi hanno colpito particolarmente delle xilografie da disegni di Millet, inclusi La caduta delle foglie (Pastore che cura il suo gregge), Stormo di corvi, Asini in una pianura sotto la pioggia, I taglialegna, Donna che scope la sua casa, Cortile (effetto notturno) eccetera, anche un'incisione di Corot, La duna, e da Breton, La festa di San Giovanni e altri, e anche da Millet I fagioli».
* * *
A Theo van Gogh: L'Aia,
sabato 11 marzo 1882
«Non ho mai sentito un buon sermone sulla rassegnazione, né sono mai stato capace di immaginarne uno salvo questo quadro di Mauve e l'opera di Millet. Si tratta proprio di rassegnazione, ma quella vera, non quella dei preti. In questo dipinto trovo una filosofia così alta, pratica, priva di parole, sembra dire di sapere come soffrire senza lamentarsi, questa è l'unica cosa pratica, è questa la grande abilità, la lezione da imparare, la soluzione ai problemi della vita.
Mi sembra che questo quadro di Mauve sarebbe uno dei rari dipinti davanti a cui Millet sosterebbe a lungo, borbottando tra sé e sé, ha un buon
cuore quel pittore».
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A Theo van Gogh: Nuenen,
lunedì, 26 gennaio 1885
«Sono ogni giorno più convinto che quelli che non fanno del combattere con la natura il loro impegno principale "non" ci arrivano. Penso che se si cerca di seguire i maestri attentamente, li si incontra tutti a un certo punto, radicati nella realtà. Voglio dire, quelle che sono chiamate le loro "creazioni", si vedono anche nella realtà, se si ha uno sguardo simile al loro, un simile sentimento.
Ciò che Michelangelo ha detto in una metafora di somma bellezza, penso lo dica Millet senza metafora, e uno può forse imparare meglio a vedere attraverso Millet e trovare "una fede".
Se farò lavori "migliori" più avanti, non lavorerò però in modo diverso da adesso. Voglio dire, una mela è sempre una mela, solo più matura; io stesso non volterò le spalle a ciò in cui ho creduto fin dal principio. Perché il grano è il grano, anche se di primo acchito sembra erba alla gente di città.
In ogni caso, che la gente ami o meno ciò che faccio e come lo faccio, da parte mia non conosco altro modo che combattere con la natura fino a che non mi svelerà il suo segreto».
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A Theo van Gogh: Nuenen,
mercoledì, 2 settembre 1885
«Quando penso a Millet, allora trovo l'arte moderna grandiosa quanto Michelangelo e Rembrandt – il vecchio infinito e anche il nuovo infinito – il vecchio genio, il nuovo genio.
Per quanto mi riguarda sono convinto che in questo campo si possa credere nel presente.
Il fatto che io abbia precise convinzioni sull'arte, significa anche che so cosa voglio ottenere nella mia opera e che cercherò di ottenerlo anche se morirò tentando».
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A Theo van Gogh: Saint-Rémy-de-Provence,
venerdì, 20 settembre 1889
«Al momento ho 7 copie su dieci dei Travaux des champs di Millet. Ti posso assicurare che mi interessa tantissimo fare copie, e, non avendo modelli, per ora questo farà sì che non perda di vista la figura. In più mi fornirà una decorazione per lo studio, per me o per un altro. Metto dinnanzi a me i bianchi e neri di Millet come modelli. Poi improvviso il colore, ma, trattandosi di me, non improvviso completamente, ma cercando il ricordo dei "loro" dipinti. Ma la memoria, la vaga consonanza dei colori, che sono dello stesso sentimento, se non esatti, ecco la mia interpretazione personale. Un sacco di gente non copia. Un sacco di gente copia. Per quanto mi riguarda, lo faccio per caso e scopro che mi insegna e sopra ogni cosa che, a volte, mi consola».
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A Theo van Gogh: Saint-Rémy-de-Provence,
25 ottobre 1889
«Finalmente ieri sera sono arrivate le riproduzioni di Millet e ne sono molto lieto. M. Peyron (il medico che dirigeva l'ospedale psichiatrico di Saint Rémy de Provence) mi ha ripetuto ancora che ci sono miglioramenti significativi e che è ottimista. Però, molto spesso mi prende una malinconia violenta, e inoltre, più la mia salute migliora, più la mia mente è in grado di ragionare molto lucidamente, più mi pare una follia realizzare dipinti che ci costano così tanto e che non ci fruttano nulla, neanche il costo di produrli, una cosa completamente senza senso».
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