La lungimiranza degli stranieri neutrali
La miopia degli osservatori antifascisti
L’arrivo al potere di Mussolini attirò l’attenzione di molti autori giunti dall’estero
Alcuni affermarono che il popolo si sarebbe presto ribellato alle camicie nere
altri invece capirono che la dittatura aveva basi solide ed era destinata a durare
Paolo Mieli
"Corriere della Sera", 13 ottobre 2014
Il primo osservatore straniero che seppe dare un giudizio severo del fascismo fu lo scrittore jugoslavo (futuro premio Nobel), Ivo Andric. Nel novembre del 1921, al momento del congresso fascista di Roma, vide «i cortei d’uomini in camicia nera adornati con una testa di morto, scarmigliati, sfilare a passo di parata per le vie tranquille della capitale» e individuò chiaramente «l’origine e il percorso del fascismo». «Fatta eccezione per alcuni entusiasti professori barbuti, figli di buona famiglia e studenti occhialuti», li descrisse l’autore del romanzo Il ponte sulla Drina , «tutti gli altri avevano visi poco intelligenti, brutali, da provinciali violenti… La testa scoperta, il viso illividito dal freddo intenso, con un entusiasmo arrabbiato, indossando fasce con caratteristiche parole d’ordine (“Me ne frego”, “Disperata”), brandendo manganelli nodosi, piuttosto che semplici bastoni di ferro o di piombo, evidentemente consacrati dalla tradizione di numerose risse». «È la provincia oscura, rozza, calata a Roma avida di battersi e assetata di potere… un’invasione di canaglie e di arrivisti». Lo scrittore rimase poi strabiliato dal comportamento dei politici del tempo: «L’organizzazione temibile di Mussolini, e il pericolo che ne deriva per i governanti, non distoglie affatto questi ciechi dai loro meschini intrighi parlamentari per rovesciare un governo e impossessarsi dei ministeri… Il parlamentarismo italiano marcia rapidamente verso la sua rovina».
Uno tra i migliori eredi di Renzo De Felice, Emilio Gentile, già autore di testi fondamentali sul totalitarismo, ha raccolto in un volume denso di suggestioni, In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri (in uscita da Mondadori), osservazioni e riflessioni «da fuori» sul ventennio nero. Il venticinquenne giornalista marxista tedesco Hanns-Erich Kaminski giudicò Mussolini «un pagliaccio». Riferì di aver fatto vedere la sua foto a parecchie persone, chiedendo loro chi pensavano che fosse, e che le risposte furono pressoché unanimi: un tenore o un attore di cinema. Kaminski non ebbe dubbi: Mussolini era «un commediante», che valuta ogni atto «in funzione dell’effetto», «aspetta sempre l’applauso ed è pronto a prostituirsi per essere adulato». Nel febbraio del 1925, quando ormai Mussolini era saldo al potere, Kaminski scrisse che il Duce era «solo». «Il popolo italiano», aggiunse, «lotta oggi per la sua libertà, e poiché per il suo carattere e la sua storia può vivere esclusivamente come un popolo libero, esso combatte in verità per la sua stessa esistenza». Maliziosamente Gentile riproduce la previsione evitando di sottolineare come si dovettero attendere vent’anni perché essa si inverasse.
Stessa malizia si intravede nella citazione di quel che scriveva il socialista americano Charles Edward Russel, secondo il quale già in quei primi anni Venti il sentimento generale contro Mussolini era così grande che «nessuno si sarebbe stupito di qualsiasi cosa gli fosse capitata», dal momento che «egli aveva commesso, o aveva permesso al suo governo di commettere, ciò che agli occhi degli italiani era la più grave delle offese: aver negato lo spirito della rivoluzione italiana, aver tradito la tradizione di Mazzini». Sulla base di questa percezione, Russel si diceva sicuro «che la fine della dittatura non era lontana dal momento che la maggioranza della nazione era manifestamente contro di essa». Il politico catalano Francisco Cambò, dopo l’uccisione del leader socialista Giacomo Matteotti, si disse certo del fatto che Mussolini non poteva «far altro che capitolare»: «si mantiene al governo perché, oggi come oggi, nessuno vuole sostituirlo».
Più trattenuto (quantomeno per quel che riguardava le previsioni) fu il giornalista radicale inglese William Bolitho, secondo cui il Duce aveva «depredato il Paese della libertà e di tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». «Nel terzo anno del suo dominio», scriveva Bolitho nel 1925, «l’Italia è un mondo silenzioso e ombroso, dove gli uomini hanno paura di essere visti per le strade in compagnia della verità». Ma poi allargava le responsabilità di quel che stava accadendo da Mussolini ai suoi predecessori dell’Italia liberale: Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giovanni Giolitti. Loro «avevano usato la corruzione per dominare; il capo del fascismo oltre alla corruzione, faceva ricorso al revolver e al manganello» e questa «era l’unica differenza importante fra l’Italia sotto Mussolini e l’Italia governata dai liberali». Infine anche a lui il Duce appariva come «il sorvegliante di una prigione piena di carcerati» e il fatto che avesse imposto la censura gli sembrava essere «la prova più evidente dell’assenza di un reale consenso da parte dei suoi concittadini». Ma allora perché il Paese non si ribellava? Per la passività generale: «Passiva l’opinione pubblica, impaurita e ignorante; passive le Forze armate, che si mantengono neutrali, attorno a una monarchia circospetta; passiva e paralizzata l’opposizione politica; passiva la stampa ostile al regime; passiva la classe lavoratrice sottomessa». Unica, parziale, eccezione la Chiesa, passiva anch’essa, ma che «ha sollevato la protesta più alta da quando la libertà di stampa è stata soppressa».
Rappresentazioni polemiche dell’Italia fascista diedero anche lo scrittore e giornalista francese Henri Béraud, l’americano John Bond e gli spagnoli Juan Chabas e Alicio Garcitoral. Quest’ultimo nel 1930 parlava delle «maschere» del Duce, che da agitatore antiborghese si era messo in tutto e per tutto al servizio della borghesia. Opinione simile a quella del comunista tedesco Alfred Kurella, che nel 1931 esultava perché a suo dire era caduta «la maschera di Mussolini» e «caduta la maschera, Mussolini è sparito e appaiono i brutti ceffi dei possidenti, degli industriali e dei banchieri, i veri padroni dell’Italia fascista».
Il libro di Gentile non è e non vuole essere a tesi. Ma quel che viene fuori è che (tralasciati i non pochi simpatizzanti esteri del regime fascista, come il giornalista inglese Percival Phillips o l’ex ambasciatore americano a Roma Richard Washburn Child) gli osservatori neutrali, che sono la maggioranza, danno un giudizio più articolato di quello degli antagonisti su quel che accadde in Italia tra gli anni Venti e la metà degli anni Quaranta. Non di rado, un giudizio che contiene qualche concessione.
È il caso di Edgar Ansel Mowrer, corrispondente in Italia del «Chicago Daily News», il quale incontrò Mussolini già nel maggio del 1915 e il 29 ottobre del 1922 fece con lui il viaggio in treno che portò il futuro capo del governo nella capitale all’indomani della marcia su Roma. Grande amico di Giuseppe Prezzolini, Mowrer, pur non avendo grande simpatia per il Duce, scrisse pagine assai acute sull’«inatteso risveglio» del nostro Paese. Mowrer era rimasto colpito da un’affermazione di Francesco Saverio Nitti: «Noi italiani non facciamo rivoluzioni, facciamo discorsi». Effettivamente, aggiungeva il giornalista americano, agli italiani piaceva annunciare intenzioni e «spararle grosse». Tale abitudine, aggiungeva, «sarebbe innocua se non fosse per il fatto che questo gas verbale è di gran lunga più micidiale di quelli usati in guerra, perché crea una cortina tra chi parla e la realtà, dando di questa un’immagine distorta; agli italiani accade di vedere ogni cosa attraverso una cortina fumogena di iperboli, retorica e semplici assurdità».
Stesso discorso vale per lo scrittore inglese Richard Bagot. E per lo studioso francese Maurice Pernot, che attribuiva «la causa originaria del fascismo alla carenza dell’autorità dello Stato nel corso dei primi due anni del dopoguerra»; secondo lui era merito del fascismo aver fatto appello alla nazione affinché la smettesse di piangersi addosso e riacquistasse l’orgoglio assieme alla volontà di riaffermare il proprio ruolo nel mondo, come aveva fatto con l’interventismo, con la guerra e con la vittoria. L’americano Carleton Beals tenne un diario della marcia su Roma e fece acute notazioni su quanto il degrado dei servizi nel primo dopoguerra avesse contribuito all’affermazione del partito fascista: «Condurre affari pubblici richiedeva infinite complicazioni burocratiche, conoscenze influenti ed esborso di denaro… Telefonare era pressoché impossibile, le poste erano nel caos più completo».
Benevoli furono in qualche modo Kenneth Roberts e il riformista George Herron, che deprecò il «sistema tirannico delle leghe rosse» e sostenne le ragioni degli italiani in merito agli esiti della Prima guerra mondiale. Così anche Paul Hazard che, riprendendo le osservazioni di Beals sulla burocrazia, vedeva come gli abitanti dell’intera penisola si attendessero dal fascismo il «miracolo più grande»: «Forse attaccherà i ministri e i burocrati dei ministeri; forse farà comprendere ai burocrati di Roma che “urgente” non vuol dire “sei mesi”; e farà capire agli italiani che le leggi sono fatte per essere osservate, qualunque cosa ne pensino».
L’unica alternativa al fascismo individuata da questi osservatori stranieri, in viaggio per l’Italia all’inizio degli anni Venti, si trovava nel mondo cattolico. Hazard si disse molto favorevolmente impressionato dall’arcivescovo di Milano Achille Ratti (il futuro Papa Pio XI). E dal fondatore del Partito popolare, don Luigi Sturzo: «L’istinto delle realizzazioni pratiche è la sua passione», scrisse, «è dappertutto, vede tutto, prevede tutto, interviene al momento opportuno per proporre agli esitanti, agli indecisi, ai confusionari, le soluzioni opportune». E ancora: «Cosa sarebbe il Partito popolare senza di lui? Certamente senza di lui non sarebbe arrivato a un tale livello di prosperità… Don Sturzo lo domina: ne è il dittatore; so che si irrita quando lo si chiama così, e protesta… Diamogli questa soddisfazione e diciamo allora che don Sturzo è un soldato semplice come Napoleone era il piccolo caporale». Ma Hazard previde anche quel che stava per accadere nel nostro Paese. I fascisti, scriveva prima della marcia su Roma, consideravano l’Italia «gravemente ammalata» e «dopo averla salvata, volevano guarirla… spazzando via gli uomini al potere e installandosi al loro posto, ripudiando le istituzioni sorpassate, i metodi invecchiati, le abitudini timide». Ed era bene non farsi illusioni: «Essi vanno diritti a un colpo di Stato, profezia tanto più facile da farsi, dal momento che l’annunciano rumorosamente».
Per il resto, fa notare Gentile, anche un osservatore poco sensibile al fascino mussoliniano come Beals si sentì in dovere di riconoscere che quella del Duce era «una personalità trascinatrice di primo piano» e notò la sua «determinazione calvinistica» che si univa a una sorta di «egoismo cromwelliano»; inoltre «questo leader energico, alquanto dogmatico eppure fantasioso, è diventato sempre più, col passare del tempo, un punto di raccolta attorno al quale può turbinare la corrente emotiva del popolo».
Kenneth Roberts, pur assai critico nei confronti della deriva autoritaria mussoliniana («se tutti gli atti di Mussolini sono costituzionali, allora il monumento di Washington è fatto di caramelle alla menta», ironizzò), riconobbe l’effetto della sua «magia nera» che aveva salvato l’Italia mentre stava precipitando nel gorgo di un disastro finanziario «al cui confronto le cascate del Niagara sarebbero apparse come una placida pozzanghera d’acqua piovana». Gli italiani, osservava Roberts (sfavorevolmente impressionato dal peso che sull’amministrazione pubblica avevano «burocrati che non avevano mai udito il suono di una sveglia»), «non sono abituati a rispettare la tabella di marcia, specialmente (e siamo di nuovo a quel che aveva colpito Beals e Hazard, ndr ) quelli impiegati nell’amministrazione pubblica… Mussolini ha messo fuori dalla burocrazia statale migliaia di impiegati per migliorare l’efficienza degli uffici; il risultato è che ora tutti gli altri sono solerti. Sotto di lui, un ufficio statale italiano appare il luogo più indaffarato del mondo». Anche se, avvertì l’americano Clayton Cooper, in Italia «è più facile fare una rivoluzione che costruire un governo stabile». E, aggiunse Beals, «per quanto forte sia questo Stato, l’Italia è ancora un guscio di noce nel mare tempestoso d’Europa».
Colpisce in questo straordinario libro di Emilio Gentile la diversità tra i giudizi più ingenui e ottimisti degli antifascisti e quelli ben più profondi e realistici degli osservatori che tenevano ben distinta l’analisi dalla battaglia politica. Ma colpisce altresì l’ampiezza di credito che, in virtù di queste analisi, fu dato in sede internazionale all’esperimento mussoliniano. Il che spiega anche i comportamenti non ostili delle supposte potenze antifasciste fino alla metà degli anni Trenta. E anche oltre, in qualche caso.
Voci antagoniste e simpatizzanti nella rassegna di Emilio Gentile
Esce in libreria domani il volume In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri (Mondadori, pagine 360, e 20), nel quale lo storico Emilio Gentile offre un’ampia rassegna dei giudizi che autori esteri di vario orientamento formularono sul fascismo e sul suo capo. Nato a Bojano, in provincia di Campobasso, nel 1946, Gentile è stato allievo di Renzo De Felice. Studioso del fascismo e più in generale del totalitarismo, si è occupato a fondo anche dello sviluppo dell’identità nazionale italiana dal Risorgimento in poi. È uno dei più autorevoli sostenitori della tesi secondo cui il fascismo fu un regime pienamente totalitario. Un saggio di Gentile sul primo conflitto mondiale, L’apocalisse della modernità , uscirà in edicola con il «Corriere della Sera» l’11 dicembre prossimo nella collana «La Biblioteca della Grande guerra».
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