Jacqueline Risset
"Il Sole 24 Ore - Domenica", 5 ottobre 2014
Questo testo inedito di Jacqueline Risset, estratto dall'intervento che lei stessa aveva preparato per la Lectura Dantis dell'Istituto di studi italiani, verrà presentato all'Università della Svizzera Italiana, Lugano, l'otto ottobre prossimo. Il 5 novembre prossimo apparirà presso Flammarion Paris «Rimes de Dante, présentées et traduites par Jacqueline Risset», Paris, Flammarion, novembre 2014
Di Beatrice abbiamo un'immagine di Intermediario per eccellenza tra umano e divino; allo stesso modo abbiamo anche una nozione di Paradiso come luogo verso cui costantemente tende il pensiero di Dante. Ma d'improvviso, tra le Rime dette "extravaganti", ci troviamo davanti a una canzone (una soltanto) nella quale Beatrice viene nominata esplicitamente. Allora, con stupore, vediamo costei, «tanto gentile», comportarsi da civetta crudele e insaziabile che «per suo piacere» porta a morte l'amante; e la "novità" in rapporto con il nome adorato cambia senso di colpo, divenendo novità di morte e non di vita…
Quel dolce nome, che mi fa il cor agro,
tutte fiate ch'i' lo vedrò scritto
mi farà nuovo ogni dolor ch'io sento;
Ce doux nom, qui me fait le cœur aigre,
toutes les fois que le verrai écrit,
me renouvellera la douleur que je sens.
(Rime, LXVIII, 15-18)
Qualcosa di quanto viene enunciato in questa canzone "extravagante" resterà nel poema sacro. Intendo la forza del mondo terreno, la persistenza delle immagini di questo mondo , che si manifesterà attraverso la nostalgia che al suo passaggio il viaggiatore ancora vivo provoca in coloro dei quali «le corps s'est tout consumé».
Nelle Rime, nel grado di sperimentazione che esse esprimono, si manifesta la natura della grande passione letteraria di Dante. Fin dalle prime è evidente la grandissima attenzione per il lavoro della scrittura, che poi si tradurrà in verve di emulazione e in fierezza di una padronanza tecnica orgogliosamente dichiarata. Come quando, parlando alla sua canzone Amor, tu vedi ben che questa donna, l'autore stesso, colmo di meraviglia, nelle ultime righe proclama:
La novità che per tua forma luce,
che non fu mai pensata in alcun tempo.
La nouveauté qui brille dans ta forme
qui n'a jamais été pensée en aucun temps.
(Rime, CII, 65-66)
Dante si compiacerà a lungo nel considerare sé stesso come uno straordinario artefice della poesia, rotto a ogni esercizio, a ogni sfida, e capace di innovazioni assolute. Lo spazio di un'esperienza collettiva legata alla poetica del Dolce Stil Novo, nelle Rime coglie momenti compiuti di espressione. Come nel sogno di evasione colmo dell'immaginario dei romanzi arturiani (qui Dante non ricorre ai trovatori provenzali, ma alla letteratura nordica, alla navicella del mago Merlino), che descrive nel famoso sonetto indirizzato a Guido Cavalcanti:
Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch'ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;
Guido je voudrais que toi Lapo et moi
soyons pris par un enchantement
et mis en un vaisseau qui à tous vents
allât par mer à notre seul vouloir.
(Rime, LII, 1-4)
I soggetti, gli amici, si interpellano, si danno del "tu": «Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io…». I poeti del Dolce Stil Novo collaborano ad un'opera collettiva di poesia; partendo da una nozione di "ispirazione assoluta" – il dettato d'amore – analizzano il fenomeno amoroso riconducendolo non all'individuo empirico, ma a un modello universale di uomo. La persona del nuovo troviero, lungi dall'affermarsi, si dissolve nella coralità dell'amicizia.
(Traduzione dal francese di Umberto Todini)
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