L’esperienza di una vita nel nuovo saggio di Alberto Asor Rosa
Il privilegio di “un profondo, sviscerato, ancestrale amore per la parola scritta”
È di Contini “la chiave interpretativa più intelligente e matura del nostro Novecento”
Paolo Mauri
"La Repubblica", 17 ottobre 2014
SI PUÒ cominciare a leggere un libro dalla fine? Qualche volta sì, qualche volta è addirittura necessario. Per esempio il volume di Alberto Asor Rosa che si intitola Letteratura italiana (Carocci editore) e che ha come sottotitolo La storia, i classici, l’identità nazionale è bene cominciare a leggerlo dal fondo e precisamente dal capitolo 10 che è intitolato «Cinquantadue». Si tratta del discorso pronunciato dal professor Asor Rosa il 5 giugno del 2003 nell’Aula prima della facoltà di Lettere della Sapienza all’atto di lasciare l’insegnamento. Dal momento del suo primo ingresso in quell’edificio erano appunto trascorsi (ecco spiegato il titolo) cinquantadue anni.
Mezzo secolo di intensa frequentazione della Letteratura e di quella italiana in particolare: prima da studente (ah, quelle soporifere lezioni del grande Natalino Sapegno!) poi da assistente e infine da docente vero e proprio. Una vita sostenuta da un privilegio: «Un profondo, sviscerato, forse ancestrale amore per la “parola scritta”» che è diventato poi amore per i classici, per i grandi scrittori, per la poesia.
Senza questa premessa il resto del libro si capirebbe poco: perché bisogna amare la letteratura per discutere di storia letteraria, di critica, di classici e canone dei medesimi. Cosa che Asor Rosa fa, recuperando qui in bell’ordine saggi già sparsamente pubblicati e anche, utile per fare il punto su questioni complesse, una conversazione con Corrado Bologna.
Qualche anno fa, per lanciare il romanzo di uno scrittore americano, l’editore pensò di chiedere dei pareri ad alcuni testimonial (oggi si usa molto) e uno di loro disse: «È un classico». La cosa mi fece sorridere per il semplice fatto che classici non si nasce, ma si diventa e difatti la definizione di classico forse più acuta la diede Leopardi, che Asor Rosa cita diverse volte, quando scrive: «È un curioso andamento degli studi umani, che i geni più sublimi liberi e irregolari, quando hanno acquisito fama stabile e universale, diventino “classici”, cioè i loro scritti entrino nel numero dei libri elementari, e si mettano in mano ai fanciulli, come i trattati più semplici e regolari delle cognizioni “esatte”».
Dunque un Leopardi giovanissimo aveva capito cosa occorre perché un’opera diventi un classico. Comunque, scrive Asor Rosa rispondendo a Corrado Bologna, «uno non sa mai “prima” se una qualsiasi operazione letteraria è destinata a diventare un “classico”… questo si sa sempre dopo». Quel “dopo” comporta il vissuto di un’opera, spesso particolarmente ricco se si tratta di una “grande opera”. La Commedia dantesca fece fatica a diventare un classico, proprio perché aveva tali caratteri di novità che non erano facili da recepire. Carlo Dionisotti in una sua memorabile conferenza sulla alterna fortuna di Dante prese in considerazione anche le celebrazioni dantesche che scandivano i centenari della nascita e della morte. Non è un fatto secondario come una nazione vive la propria letteratura e basterebbe pensare alla fortuna di Manzoni nelle scuole.
Ma la letteratura è inevitabilmente un corpo mobile e le storie letterarie obbediscono a esigenze diverse mutando anche radicalmente nel tempo. Lo sa bene Asor Rosa che di storie letterarie ne ha scritte in proprio (l’ultima è la Storia europea della letteratura italiana) e ne ha organizzato di collettive, come la Letteratura italiana Einaudi. Il profano potrebbe chiedersi: ma non sarebbe possibile scrivere una storia scientifica della letteratura risolvendo una volta per tutte la questione? La risposta è ovviamente: no. La storia della letteratura pensata da De Sanctis per una nazione che stava guadagnandosi una nuova identità non poteva assomigliare alla grande impresa di Tiraboschi che lo aveva tanti decenni prima preceduto, obbedendo alla necessità di superare la semplice erudizione, che pure possedeva in modo sterminato, e di raccontare l’esperienza culturale (e non solo letteraria) a partire da tempi antichissimi (gli etruschi!) e dunque non muovendo dalla grande novità del volgare con cui si inaugura la nostra letteratura propriamente detta.
E qui cade, secondo me, una domanda cruciale: è più importante un’erudizione immensa o non piuttosto un “taglio” che illumini in maniera nuova il complesso castello delle grandi opere che di fatto poi fanno la storia letteraria? Senza nulla togliere ai sapienti e ai ricercatori che accumulano i dati concreti, è abbastanza intuitivo che le svolte significative vengano, diciamo così, dalla genialità dello storico e del critico che è in lui o accanto a lui. Asor Rosa indica ad un certo punto in Contini colui che «propone la chiave interpretativa più intelligente e matura della letteratura italiana del Novecento» in un saggio apparentemente minore: una Introduzione allo studio della letteratura italiana contemporanea scritto nel ‘44. Contini vede nella letteratura italiana intorno al 1925 farsi largo i nomi di Proust e di Joyce, di Katherine Mansfield e di Virginia Woolf. Sulla scorta di questi autori sarà la memoria ad acquisire una sorta di primato anche in Italia.
Contini, inoltre, vede nel magistero crociano poco incline alla storia letteraria il motivo di un certo ritardo nel mettere a fuoco quanto nel Novecento era fin lì accaduto. Dunque per costruire una storia letteraria bisogna che ci sia un bravo architetto, magari un urbanista, che disegni come si struttura la città delle lettere, che è luogo reale, ma anche sostanzialmente immaginario. Tra le molte suggestioni presenti in questo libro segnalo la lettura che Asor Rosa fa delle varie antologie di poesia che si sono succedute nel Novecento, mettendo a confronto il lavoro di Sanguineti (nato a ridosso dell’esperienza della neoavanguardia) con quello più accademico di Pier Vincenzo Mengaldo. Per capire quanto di valutazione personale entri in gioco si può far riferimento al caso Campana. Campana (scomunicato da Contini) viene glorificato da Sanguineti che lo pone alle porte del nuovo secolo, mentre Mengaldo lo considera un poeta tardo-ottocentesco. Un canone letterario (Asor Rosa fa spesso riferimento, concordando e discordando, ad Harold Bloom) non è mai scontato. Oggi siamo abituati a veder considerata la letteratura come merce e questo va un po’ a danno della critica e della civiltà letteraria che ci portiamo dietro da secoli. Il premio Nobel Patrick Modiano (un Nobel molto ben assegnato) non vende molto in Italia. Forse 4.000 copie a titolo in media. Ma è un vero scrittore. Quando era giovane lavorava per Gallimard come lettore di manoscritti, a un certo punto decise di lasciare l’incarico che pure gli procurava qualche soldo. All’editore spiegò: quella roba mi guastava lo stile.
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