Il destino imperiale della libertà
Catone e Cesare secondo Dante
Luciano Canfora
"Corriere della Sera", 7 gennaio 2015
In tutta la tradizione antica (archetipo il duello oratorio messo in scena da Sallustio) Catone è l’anti-Cesare. Aggiungiamo che, per il ritratto di Catone, Dante ha fatto capo alla fonte più ostile a Cesare e maggiormente esaltatoria nei confronti di Catone: la Farsaglia di Lucano. Il Catone di Dante è infatti, già nel sembiante fisico, il Catone della Farsaglia (II, 373-375), vecchio (ma in realtà egli era men che cinquantenne quando si suicidò per la sconfitta) e canuto e dotato di una barba imponente. E non v’è possibilità di equivoco sul tono duramente anti-cesariano di Lucano che si spinge, nel IX libro, a definire Catone «vero pater patriae» (IX, 601), con evidente allusione polemica alla servile proclamazione di Augusto come pater patriae da parte del Senato nel 2 a.C.
Che Lucano fosse il cantore della resistenza repubblicana a Cesare era chiaro a qualunque lettore. Si può guardare in proposito anche la sintetica biografia dell’Uticense nell’opuscolo assai diffuso nel Medio Evo De viris illustribus urbis Romae. Importanti e autorevoli voci quali quelle di Agostino (Civitate Dei I, 23-24) e di Tommaso d’Aquino condannavano di Catone anche il gesto finale – il suicidio in nome della libertà – che invece Dante sacralizza. Per Dante, Catone è colui che «vita rifiuta» per la libertà (Purgatorio II, 72-75): ed è proprio quel gesto estremo che lo spinge a conferire a Catone un ruolo primario all’ingresso del regno della luce.
E nondimeno la vittoria di Cesare su Catone, a Tapso, premessa del suicidio eroico dell’irriducibile repubblicano, rappresenta, nel VI del Paradiso, nelle parole di Giustiniano, il culmine della marcia trionfale di Cesare, che a sua volta campeggia al centro del profilo della storia di Roma concepita come marcia trionfale dell’aquila imperiale (versi 55-72, in particolare 70-72: «Da onde scese folgorando a Iuba (…) ove sentía la pompeiana tuba»).
Dante compone questo dissidio in una visione più alta. Nel superamento di questa contraddizione si manifesta e prende corpo quello che potremmo definire il sincretismo storiografico di Dante alle prese con la storia di Roma: una storia da lui concepita unitariamente, in cui la fase repubblicana non solo precede cronologicamente ma prepara l’impero. L’impero è per lui parte essenziale di un disegno divino, e Cesare ne rappresenta il motore principale. È questo il senso del grande affresco storico che prende le mosse da Enea e Pallante e giunge fino alla storia contemporanea di Firenze (!), tracciato da Giustiniano nel VI canto del Paradiso . E a ragion veduta, e con chiara intenzione, proprio da Giustiniano, cioè dall’imperatore che non soltanto riunifica l’impero riconquistando l’Occidente, ma che incarna nel modo più incisivo il cesaropapismo bizantino, la totale non-subordinazione dell’impero rispetto alla Chiesa. Quel profilo storico affidato a Giustiniano è il nocciolo della visione dantesca della storia di Roma, è uno degli epicentri ideologici dell’intero poema ed è il corrispettivo poetico del trattato Sulla monarchia incastonato in un punto nevralgico del poema teologico.
Non abbiamo «perso per strada» l’aporia da cui siamo partiti. Catone rifiuta Cesare e si uccide per testimoniare al grado più alto il valore della libertà . La contraddizione rispetto all’asserito ruolo storico dell’opera di Cesare sarebbe lancinante se la chiave non fosse proprio nella nozione di libertà. È la libertà come consapevolezza della necessità , quella che Dante «va cercando», come Virgilio spiega a Catone. Come la libertà del cristiano — quella che Dante «va cercando» — si pone agli antipodi dell’arbitrario soddisfacimento delle proprie pulsioni e si realizza nella consapevole autodisciplina, così la libertà che ricongiunge il gesto di Catone al compito storico di Cesare e poi del «baiulo seguente», cioè di Augusto, pacificatore universale, è l’accettazione dell’impero come unica possibile e positiva cornice della convivenza umana. Altro destino tocca invece ai pugnalatori Bruto e Cassio, che «latrano» nel punto più profondo dell’ Inferno , in bocca a Lucifero (XXXIV, 65), addirittura insieme con Giuda. Tradire Cristo e tradire Cesare sono sullo stesso piano!
E come armonicamente la vicenda dell’impero di Roma passa dalla fase repubblicana a quella monarchica, altrettanto armonicamente — nella visione dantesca lontanissima dalla battagliera opzione anticlassica di un Agostino — la cultura classica (pagana) confluisce come complementare praeparatio in quella cristiana: da Virgilio a Stazio (figura strategica al centro del poema: XXI e XXII del Purgatorio), a Dante stesso. Ecco perché il Purgatorio si apre con l’invocazione, che ad un palato ortodosso può apparire blasfema, alle «Sante Muse». Le Muse, la quintessenza della cultura classica pagana, vengono gratificate con l’epiteto della santità. Orbene, anche questa continuità classico-cristiana, che salva la cultura pagana facendo capo alla salvifica nozione di praeparatio (donde il castello del Limbo, donde il ruolo di Virgilio) converge verso la centralità dell’impero: perché l’impero stesso si è cristianizzato senza cambiare natura, come spiega Giustiniano. Semmai l’errore è stata la «donazione di Costantino», e Dante lo dice in prima persona più volte: Inferno XIX, 115; Purgatorio XXXII, 124; Paradiso VI, significativamente all’inizio del Canto di Giustiniano; e inoltre Monarchia III, 10, 12.
La monarchia universale creata da Roma è dunque, nella sua visione, non solo l’approdo di una lunga storia, ma anche ideale politico attuale e risposta necessaria e urgente al problema politico quale si manifesta nel presente.
Nessun commento:
Posta un commento